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Un’eredità da lasciare

Di Luca Radaelli

L’attacco all’ospedale di Kunduz nel 2015

Mi ricordo quel giorno come se fosse ieri. Stavo rientrando da Lashkar-gah quando ricevetti la chiamata di uno dei responsabili di Medici Senza Frontiere. “Sono in aereo, sto per decollare”. “Chiamami appena atterri: hanno bombardato l’ospedale di Kunduz”. Mi si gelò il sangue. In quel periodo le tensioni nel Paese erano fortissime e scontri a fuoco con morti e feriti si registravano ovunque. Ma quella era un’altra storia. Erano coinvolti degli aerei, quindi non potevano essere stati i Talebani. E colpire MSF era come colpire tutto il mondo umanitario.

Nelle trenta ore successive sono state trasferite nel nostro ospedale di Kabul novanta persone: la maggior parte fu trasportata da Kunduz via terra, forse qualcuno arrivò in elicottero, non ricordo bene.  

Un “errore” degli americani, lungo un’ora intera, aveva distrutto un ospedale e messo in ginocchio un’intera provincia.

La storia di EMERGENCY è radicata nella storia recente del Paese. Siamo entrati in un periodo in cui i Talebani combattevano con l’“Alleanza del Nord”. Abbiamo aperto i primi due ospedali su entrambi i lati del fronte, sin dal primo giorno abbiamo messo in chiaro la nostra imparzialità e neutralità. Ma l’attacco all’ospedale di Kunduz era venuto da un soggetto esterno, un soggetto “amico”.

Dieci anni in Afghanistan

La mia prima esperienza in Afghanistan risale al 2008, quando andai a lavorare come infermiere nell’ospedale di Lashkar-gah. Tornai diverse volte, per periodi relativamente brevi. In Italia lavoravo nel settore pubblico e arrivai al punto di non poter più prendere l’aspettativa per attività di cooperazione internazionale. Non avevo alternative: mi licenziai, feci un bel salto nel buio e tornai a Lashkar-gah. Col tempo, l’Afghanistan è diventato la mia casa: ricoprii il ruolo di coordinatore medico dell’ospedale di Kabul e negli ultimi due anni divenni il responsabile di tutte le operazioni di EMERGENCY nel Paese. Un arco temporale di quasi dieci anni.

La fuga degli americani

Hanno abbandonato il Paese dopo vent’anni, lasciandolo allo sbando. E quei diritti civili che avevano portato e che avevano mantenuto con le armi, si sono dissipati con loro. Hanno pensato di potersi liberare facilmente dei Talebani, ma i Talebani sono una parte integrante del Paese, che piaccia o meno. Quella afghana è una società rurale. La priorità dei contadini è che non caschino bombe dal cielo uccidendo le proprie famiglie e i propri animali: se i Talebani possono garantire questa sicurezza, stanno con i Talebani, tutto il resto è secondario.

Il livello di povertà è altissimo. La classe media, i medici, gli avvocati, sono scappati via, e con loro le risorse intellettuali migliori del Paese. Solo nel nostro ospedale di Kabul abbiamo perso sei chirurghi: avevano capacità incredibili, una perdita enorme per noi e per tutto il Paese.

La crisi del sistema sanitario[1]

La fine del conflitto e il conseguente miglioramento della mobilità interna hanno portato a un aumento del numero di persone che accedono ai servizi sanitari. Tuttavia, tali servizi, specialmente nelle zone rurali e periferiche, dispongono di risorse inadeguate o insufficienti e sono a corto di personale.

I costi dell’assistenza sanitaria e del trasporto verso le strutture sanitarie rappresentano i principali ostacoli all’accesso alle cure. Nonostante i servizi sanitari pubblici siano formalmente gratuiti, spesso i pazienti sono tenuti a pagare i farmaci e anche le stesse cure.

L’accesso ai servizi sanitari di base, in particolare per quanto riguarda la gravidanza, è particolarmente difficile per le donne e le ragazze, che negli ultimi anni sono state progressivamente escluse dalla vita pubblica.

Nonostante la fine del conflitto, la cura dei traumi, causati da incidenti stradali, ferite da arma da fuoco ed esplosioni di mine antiuomo e altri residuati bellici, rimane una priorità assoluta nel Paese. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che il conflitto ha causato una serie di disabilità gravi in circa 800.000 afghani (il 2,7% della popolazione).

L’incidenza delle malattie non trasmissibili è in costante aumento e rappresenta il principale fattore di mortalità nel Paese: la qualità dell’assistenza fornita è inadeguata, poiché la disponibilità di test diagnostici e le capacità di monitoraggio a livello di assistenza sanitaria di base sono limitate.

Il rischio di mortalità materna in Afghanistan è di 1 donna su 33, significativamente superiore alla media globale di 1 su 190. Spicca la mancanza di cliniche con assistenza ostetrica, soprattutto nelle zone più remote. Inoltre, l’accesso ai servizi di salute sessuale e riproduttiva sta diventando sempre più difficile a causa delle restrizioni imposte alla mobilità delle donne.

 Le attività di EMERGENCY

Gestiamo tre ospedali a Kabul, Lashkar-gah (entrambi Centri chirurgici per le vittime di guerra) e Anabah (Centro chirurgico e pediatrico e Centro maternità), e oltre 40 Centri di primo soccorso e di cure primarie distribuite nelle varie province.

In particolare, stiamo attrezzando le nostre strutture di assistenza primaria per gestire meglio la diagnosi, il trattamento e la gestione delle malattie non trasmissibili e per garantire servizi di salute materna e riproduttiva efficaci, attraverso l’utilizzo di ecografi e di percorsi di presa in carico integrati con gli ospedali. Questi cambiamenti comportano anche la sensibilizzazione delle comunità e la promozione dell’educazione sanitaria per incoraggiare la diagnosi e il trattamento precoci.

Stiamo sviluppando programmi di formazione mirati per gli operatori sanitari, da quelli di comunità ai medici specializzandi in chirurgia, anestesia, ginecologia e pediatria, in stretta collaborazione con il Ministero della Salute.

I nostri programmi di formazione sono aperti anche alle donne, così come le donne continuano a essere presenti tra il nostro personale e sono figure essenziali per la realizzazione dei nostri programmi: abbiamo ginecologhe, ostetriche, infermiere, abbiamo donne che lavorano con noi da sempre.

Prima del 2021 ricevevamo un supporto economico dal governo afghano, supporto che al momento è stato interrotto, con un incremento notevole dei costi per la nostra organizzazione.

Ritorno a casa

La prima volta che vedi un bambino che ha messo un piede su una mina antiuomo, resti disarmato: non tanto per la ferita in sé – sono un infermiere che ha lavorato in zone di guerra e ho visto cose ben peggiori – ma per l’ingiustizia profonda che quella ferita rappresenta. Quando ho iniziato a lavorare in Afghanistan, da subito mi sono sentito parte di qualcosa di molto più grande di me. Ho dedicato tutto me stesso a quel lavoro, ai miei colleghi, ai miei pazienti, alla gente afghana, senza riserve, senza limiti. Il fatto di aver assunto, nel corso degli anni, incarichi di sempre maggiore responsabilità mi ha ulteriormente motivato.

Ho lavorato con persone incredibili e ho vissuto situazioni che mai avrei potuto vivere altrimenti: considero quella in Afghanistan la parte più felice della mia vita. Ho sottovalutato, però, le conseguenze di questa completa identificazione con quel lavoro e con quella vita quando sarei venuto via dall’Afghanistan per tornare definitivamente a casa: sono rimasto come disorientato per anni.

La cosa che mi faceva più soffrire era il senso di colpa verso tutte le persone che avevo lasciato in Afghanistan: quando non sono più riuscito a reggere la guerra, i morti, le restrizioni alla mia vita personale, ho lasciato il Paese. Ma io avevo la possibilità di partire, loro non potevano farlo. Anche questo senso di vergogna e di tradimento mi è rimasto dentro per anni.

Soccorso nel Mediterraneo

La prima volta che ho fatto parte dell’equipaggio della “Life Support” è stato nel 2023. Ho partecipato a un’operazione di salvataggio a bordo di un gommone (RHIB). Soccorrere persone da un’imbarcazione alla deriva in mezzo al mare, al buio, è stata un’esperienza fortissima. Tu vedi negli occhi di quelle persone il sollievo per la salvezza e la riconoscenza nei tuoi confronti.

Questo non accade quando assisti un ferito agonizzante: il ferito, in quel momento, non ti guarda. E quelle emozioni così sconvolgenti ti ripagano della retorica criminalizzante che accompagna le nostre operazioni in mare e di tutte le leggi, i decreti e le norme amministrative con cui cercano di impedirti di fare una cosa, salvare vite umane, che dovrebbe essere scontata.

Quando le persone che hai tratto in salvo capiscono che non li stai riportando in Libia, esplode la felicità. Tu le osservi. La felicità è contagiosa, ma subito ti deprimi: pensi alle loro storie, a quante ne hanno passate, ai giorni inutili che ci sono stati inflitti prima dello sbarco, a ciò che accadrà loro in Italia, i centri di accoglienza, le difficoltà della convivenza. Un po’ ti travolge questa commistione di emozioni, mentre sul ponte continua l’entusiasmo e l’euforia.

Eredità

Non vivo la mia professione come un’esperienza eroica. Faccio il mio lavoro, appunto, sono un infermiere e mi prendo cura delle persone. Mi considero un privilegiato perché posso fare qualcosa di utile e che mi gratifica profondamente, e sono pagato per farlo. Sento di dovermi sdebitare per questo, e che il modo migliore per farlo sia divulgare la mia esperienza, la mia storia e quella dei miei colleghi, dei miei pazienti. Per piantare un seme da qualche parte, che almeno una persona comprenda quello che sta accadendo intorno a noi.

Sono una persona semplice, non sono un intellettuale. Credo che il mio dovere sia quello di ispirare altre persone, così come io sono stato ispirato da altri, in passato. Non dico come Gino [Strada], eh, una roba più semplice. Però mi piacerebbe lasciare qualcosa dietro di me, un’eredità, ecco.

 

[1] Da Access to Emergency, Critical and Operative Care in Afghanistan, Emergency/CRIMEDIM, 2024, consultabile qui: https://en.emergency.it/wp-content/uploads/2025/06/EMERGENCYs-Report_Access-to-ECO-Care-in-Afghanistan_June-2025.pdf