Marco Tarquinio, Direttore di Avvenire, chiarisce perché la guerra non potrà mai essere uno strumento per costruire la pace e perché sia necessario riaprire un dialogo, per un’Europa che torni a essere un laboratorio pacifico di integrazione delle differenze.
Prima messa online: giovedì 26 maggio 2022
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La trascrizione integrale dell’intervento di Marco Tarquinio per “Giù le armi”
Ben trovati, ben trovate.
Giù le armi. Facile a dirsi, difficile a farsi, perché è molto facile fare la Guerra, troppo, soprattutto nel mondo di oggi. E sembra davvero più difficile fare la pace, ricominciare la pace quando la pace viene interrotta e soprattutto quando la guerra corre per le vene del mondo, dentro la vita dei popoli, senza che quelli che fanno il mio mestiere siano in grado di farlo capire alle persone che guardano, che leggono, che ascoltano.
E così è accaduto anche nella guerra che oggi sembra riassumere tutte le altre. Secondo l’Università di Uppsala sono 169, ora 170, i conflitti aperti nel mondo. La guerra d’Ucraina, quella trasformata in guerra aperta dall’azione di aggressione condotta dalla Russia di Vladimir Putin contro questo Paese che è così simile, così fraterno rispetto alla Russia da essere quasi un gemello.
Mi è capitato di dire che è un gemello diverso e qualcuno a Mosca non accetta che ci sia questa diversità di chi è così simile a sé. Però questa è la condizione oggettiva, e la condizione oggettiva è quella, ripeto, di una guerra che dura da troppo tempo. Non vista, non raccontata, non proposta alla coscienza del mondo con l’intensità necessaria. Più di 3.000 giorni di guerra, di conflitto duro. Anche se l’abbiamo definito a bassa intensità, persino a bassissima intensità, come se le migliaia e migliaia di morti che si sono inanellate dal 2014 a oggi fossero morti minori, da non considerare con tutto il dolore e tutta la comprensione che era necessaria, che è necessaria.
Ciò non vuol dire che non dobbiamo assumere il problema che questo tempo ci dice, la forza dell’ingiustizia che si fa arma scatenata contro la vita di un altro popolo. Però dobbiamo anche capire che non c’è una guerra e non una di quelle che ho evocato che, come gli amici e le amiche di EMERGENCY, sanno bene, soltanto quattro con la guerra ucraino-russa sono guerre fra Stati, tutte le altre sono guerre di stati contro parti del proprio popolo o contro popoli confinanti, attraverso un principio di esclusione che è etnico, religioso, politico. Quando ci sono posizioni che vengono considerate inaccettabili da qualcuno o da tanti o da pochi che hanno potere. Ma c’è qualcosa che accomuna tutti questi conflitti. Il fatto che le vittime sono sempre e soprattutto persone che le armi non le portano, che le armi non le usano. Sono i civili.
E i conflitti che finiscono è perché ci sono persone che le armi non le portano, che le armi non le usano, che sanno costruire una via d’uscita diversa. Perché non c’è una guerra di quelle in quarant’anni di giornalismo raccontato che si sia conclusa con vera pace, cioè con più libertà, più verità, più unità, meno sofferenza per le popolazioni che le hanno subite. Tutti i teatri di guerra del mondo sono e restano luoghi dove la divisione è diventata profonda, dove la persecuzione ha eliminato pezzi interi della società, dove la convivenza tra etnie, religioni e culture diverse, contigue e a volte affini, è diventata o impossibile o non più reale, non più attuale, perché le persone che vivevano questa differenza sono state separate inesorabilmente.
Questo è il male grande della guerra e si riproduce oggi di nuovo in terra d’Europa. Questo ci costringe a vederlo. Questo dovrebbe costringerci a capirlo, che ogni arma in più in uno scenario di guerra significa la prosecuzione della guerra e non la sua fine. Non avvicina la conclusione delle sofferenze, ma le moltiplica. E sono concetti che io, diciamo, ho imparato a considerare da bussola nel mio lavoro di cronista, che a volte ho la sensazione di guardare troppo da lontano le cose. Però c’è anche la consapevolezza che ho accresciuto grazie ai testimoni, cioè coloro che nei teatri di guerra vivono sapendo che non è una messa in scena, ma è una drammatica condizione dell’umano che va superata, gli amici e le amiche di EMERGENCY, Gino Strada che ha cominciato questa vicinanza, questa prossimità assolutamente disinteressata, senza prendere parte, se non, come piace dire, quella delle vittime, che è l’unica parte giusta.
In tutti i conflitti ci hanno aiutato e ci aiutano oggi, loro, come tanti altri, più di quello che si creda, che resistono alla fascinazione della guerra, a soccorrere e a curare le vere ferite della guerra, cercando di costruire le premesse perché si possa tornare poi un giorno a ragionare davvero di pace, anche quando i guasti sono profondi e apparentemente irrimediabili.
Io so che oggi è diventato divisivo anche usare la parola pace, perché chi la usa viene accusato come minimo di connivenza con il nemico più cattivo, più aggressivo. Ma un’altra delle cose che ho imparato in questi anni, facendo il mestiere che faccio, è che non bisogna aver paura di dire le parole vere, le parole giuste, e non bisogna aver paura di ricordare tutti i passaggi che hanno reso inesorabile ciò che inevitabile non è. La guerra non è mai inevitabile. La guerra è il portato degli errori, delle presunzioni, delle arroganze, dei calcoli, degli affari che gli uomini di potere decidono di mettere al primo posto, prima della vita delle persone in carne e ossa. Allora, se sappiamo questo, sappiamo che ogni giorno, ogni ora, ogni minuto in più della guerra d’Ucraina, è un seme di guerra che continuiamo a piantare nella terra del nostro continente. Non hanno ragione i soldati che Putin ha scatenato contro l’Ucraina. Non hanno ragione quelli che pensano che l’unica resistenza possibile sia la resistenza armata. Io sarò forse un sognatore, ma siccome sono in realtà un realista e uno che fa giornalismo da un po’ di tempo, so che l’unico modo, sono arrivato alla conclusione che l’unico modo per fermare davvero la guerra è sovvertirne tenacemente e radicalmente la logica, quella del colpo su colpo, quella della risposta violenta alla violenza subita.
C’è un’altra via che è quella della resistenza non violenta, della disobbedienza civile, della mobilitazione forte delle società aggredite, della società amiche di coloro che sono aggrediti. E nessuno può essere nemico di chi ha aggredito. Mi piace pensare che la via che dobbiamo saper costruire, che in parte comincia a delinearsi anche in questa vicenda bellica nel cuore dell’Europa è la chiarezza e la forza necessaria per saper abbracciare un energumeno o, come dico io, può sembrare un’espressione minore abbracciare il bullo. Perché o lo fai fuori, lo ammazzi, o ci provi, quello che fa del male è un altro, oppure lo abbracci e lo tieni stretto, lo costringi a ragionare, lo leghi a te in qualche modo. È possibile? Io credo di sì.
Credo che questo accada quando gli uomini e le donne che curano i feriti di tutte le parti, quando possono farlo, sono uomini e donne che cominciano a abbracciare i violenti e in qualche modo a fermarli, a dimostrare che c’è un’altra logica possibile e necessaria. Io credo che sia possibile quando uomini e donne di territori occupati da un nemico che è arrivato in armi non acconsentono a quella dominazione e resistono senza violenza, ma non rassegnandosi alla condizione data. Credo che sia una resistenza non violenta forte quando persone che sono di lingua russa per nascita e cittadini d’Ucraina per passaporto rifiutano di usare la lingua native, per non arrendersi all’imposizione del nemico. Credo che sia una speranza grande e un seme di futuro. Quando nella Russia, sotto la censura imposta dal regime del presidente Putin, ci sono uomini e donne che non acconsentono, che trovano parole diverse, che trovano gesti di resistenza anche piccoli, infinitesimali, apparentemente in grado neanche di increspare la coltre di vero e finto consenso intorno all’uomo del Cremlino. E lo fanno infiltrando cartelli e scandendo piano slogan, non urlati ma solidi come mattoni della costruzione di qualcosa di diverso durante le parate militari che cantano la forza del regime. Quando si legano fra di loro con dei nastrini verdi che si vedono appena ma che dicono di no alla guerra, all’aggressione nei confronti di un altro popolo. Quando da accademici firmano manifesti per dichiarare la loro opposizione all’idea del mondo russo, così come la propaganda, il regime di Mosca.
Questa è la resistenza che credo necessaria e forte. Il problema è se le nostre opinioni pubbliche non sanno vederla, non sanno sostenerla: se lasciano soli questi che vanno in direzione ostinata e contraria rispetto alla inesorabile, presunta inesorabile logica della guerra. La logica della guerra può essere sovvertita e si può farlo a mani nude o armate di bisturi e di altri strumenti utili per curare le ferite nel corpo e nell’anima delle persone. Si può farlo con le parole delle autorità morali che non si rassegnano agli slogan del soccorso che inevitabilmente è anche militare, ai popoli aggrediti. Io credo e spero che l’Europa, l’altra Europa, l’Europa continentale, sappia dialogare con l’Europa che sentiamo troppo altra in questo momento. L’Europa che è Russia. Che sappia restare accanto agli ucraini. Non ci possiamo mettere al loro posto perché la prima sofferenza è di chi subisce l’aggressione e la violenza, ma possiamo saper essere loro accanto anche senza farci parti cobelligeranti, parti attive. Io spero persino decisive, ma non dentro la logica dello scontro inesorabile.
E dobbiamo saper stare accanto alla Russia, alla Russia anche minoritaria. I Centri Studi più accreditati e indipendenti di quest’altra parte d’Europa dicono che c’è fino a 1/4 della popolazione che, nonostante la censura del regime, riesce a capire, a vedere e a dissentire rispetto a ciò che è stato iniziato con la cosiddetta “operazione speciale”.
Io credo che una strada ci sia. Credo e l’ho detto più volte che guerra più guerra non fa pace. E credo sempre di più, ogni giorno che passa, che gli eroi veri, nonostante la retorica che ci avvolge e ci condiziona, siano quelli che non ammazzano nessuno, ma accettano di curare tutti, di farsi carico di tutti secondo un principio di fraternità che è l’unico modo per dare senso alle parole ‘libertà’ e ‘uguaglianza’, per tornare alla grande triade che ha costruito la cultura moderna, anche politica, del nostro continente.
Se l’Europa deve tornare a dire qualcosa al mondo lo dirà con questi uomini e queste donne che resistono alla fascinazione della guerra e battono strade diverse, che stanno accanto a coloro che nella guerra soffrono, muoiono. Sono questi gli uomini e le donne che costruiscono anche una nuova Europa, sentendosi cittadini del mondo. E se l’Europa ha un senso, è perché deve tornare ad essere un laboratorio pacifico di integrazione delle differenze, capace di abbracciare l’energumeno, di abbracciare il violento e di fermarlo, capace di rompere lo schema per cui, lo sentiamo dire tanti in questi giorni, la sicurezza del domani verrebbe dalla nostra indipendenza dagli altri, anche energetica, anche nei rapporti per le derrate alimentari, in tutto. Le pretese autarchiche sono un’altra delle follie che sentiamo descrivere come soluzione ai problemi del mondo. I popoli sono in pace quando sono legati fra di loro, quando ci sono strade che sono strade di comunicazione per la cultura, per le persone che possono camminare liberamente e senza impacci, a prescindere dal colore della loro pelle e la parte del mondo che hanno abitato prima di mettersi in cammino. E perché sono strade attraverso le quali ci comunichiamo anche i nostri interessi, anche facendo affari. Ma gli affari ad altezza d’uomo, non all’altezza vertiginosa degli speculatori che riescono a fare soldi e a scommettere sul futuro anche mentre gli uomini si ammazzano, di nuovo. E non è una bella notizia questa.
Io spero che gli uomini e le donne di Emergency sappiano continuare ad essere tessitori di una trama nuova dentro la vita del mondo, fatta di vicinanza e di radicale opposizione alla logica della guerra. È possibile e necessario. È l’avvenire che ci meritiamo.
“Giù le armi” è una serie di webinar di EMERGENCY, riflessioni per evitare la mobilitazione bellica della cultura e delle coscienze.