Francesco Vignarca, coordinatore delle Campagne Rete Italiana Pace e Disarmo, racconta come si può costruire la pace attraverso 3 parole chiave: disarmare, soccorrere e negoziare.
Prima messa online: mercoledì 6 aprile 2022
RIVEDILO SU FACEBOOK | ASCOLTA IL PODCAST | SCOPRI GIÙ LE ARMI
La trascrizione integrale dell’intervento di Francesco Vignarca per “Giù le armi”
Buongiorno a tutte e a tutti. Grazie di questo invito, grazie dell’opportunità di raccontare come e cosa si può fare dal punto di vista della prospettiva nonviolenta, nella situazione che vede oggi tutti – giustamente con terrore, paura e anche con difficoltà – vedere le immagini che arrivano dall’Ucraina.
Credo che sia importante partire da questa situazione, partire da questo caso, per ragionare in generale su quelli che possono essere gli strumenti dell’azione nonviolenta e dell’azione di disarmo. Il disarmo, in un certo senso, può essere considerato un percorso strutturale della nonviolenza, quindi non legato solo alle scelte personali, non legato solo alle scelte collettive in un certo momento, ma proprio come ricerca di tutta la società, di tutte le società, in un certo senso, verso quella direzione.
È chiaro che la guerra in Ucraina, l’invasione inopinata, criminale – lo vediamo su tutti gli aspetti – da parte della Federazione Russa nell’Ucraina ha messo tutti di fronte a gravi problemi, anche chi non aveva mai visto la guerra prima d’ora. Visto nel senso di capito e percepito che la guerra purtroppo è presente nel mondo. Ecco, questo è il primo punto che vorrei sottolineare.
Ragioniamo sull’Ucraina. Capiamo benissimo che il ragionamento sull’Ucraina è diverso dagli altri, perché si parla di un Paese molto vicino a noi. C’è un rischio di escalation che ci coinvolge. C’è un rischio anche di cobelligeranza – in un certo senso – visto l’invio delle armi italiane, anche italiane. Però non è l’unica guerra del mondo. Non è che prima, fino al 23 febbraio 2022, il mondo fosse tutto completamente in pace. E spesso e volentieri ci si dimentica troppo facilmente di queste situazioni o delle situazioni che abbiamo appena vissuto.
Pochi mesi fa tutti parlavano solo di Afghanistan. Oggi di Afghanistan parlano solo coloro che, come EMERGENCY ad esempio, sono attivi nel Paese e sanno che non è cambiato niente. Sanno che i vent’anni precedenti hanno portato una situazione davvero deleteria, davvero problematica, che continua. Quindi questo è il primo punto. Il che non vuol dire sciogliere tutto in un’inconsistente situazione per cui va bene tutto o non ci sono responsabilità, no.
Significa però andare a vedere le situazioni, andare a vedere le questioni legate anche alla guerra e alla pace, mettendole in una certa prospettiva. Perché altrimenti ci si perde, tutti siamo smarriti.
Le nostre campagne disarmiste, nonviolente, hanno fatto dei passi indietro di vent’anni per le reazioni che si sono avute – spesso, fatemelo dire, anche molto strumentali e mistificatorie – come quella di accomunare pacifisti non violenti a favorevoli a Putin.
Eh no, non ci stiamo molto, considerando che noi per anni abbiamo sottolineato quella problematicità. Abbiamo sottolineato che non si dovevano fare affari anche armati con Putin e la sua autocrazia. E adesso sembra che invece coloro che magari quegli affari li hanno fatti, li hanno sottoscritti, siano quelli puri, tranquilli, belli, giusti. E noi invece siamo i “cattivoni”.
No, perché noi in realtà non siamo come ci hanno dipinto, equidistanti. Noi siamo neutrali rispetto alle potenze militari. Perché? Perché crediamo e siamo convinti che la soluzione militare non sia una vera soluzione di pace, che la pace si possa costruire solo con la pace e che più che pacifisti, come diceva anche Gino Strada, dobbiamo essere coloro che odiano la guerra, perché quando c’è la guerra non puoi fare la pace. Quindi la prima cosa è fermare la guerra, e poi costruire la pace. Ma né fermare la guerra, né costruire la pace lo puoi fare con le armi.
E quindi noi da sempre abbiamo scelto quella che è la nostra parte, la parte dei civili, la parte delle vittime, la parte delle persone che dalla guerra sono colpite. Nessuno si occupava fino a pochi mesi fa, per esempio, dell’uso di armi esplosive in contesti popolati. Noi siamo parte di una campagna che chiede una dichiarazione politica del non uso di armi esplosive in contesti popolati.
E quanto sarebbe fondamentale oggi nel contesto di una guerra che vede proprio nelle città i luoghi principalmente colpiti e i luoghi dove ci sono le vittime? Noi da anni chiediamo il disarmo nucleare, abbiamo ottenuto il Trattato internazionale di proibizione delle armi nucleari che le grandi potenze e la stessa Italia non vogliono considerare. Ma quanto saremmo più sicuri oggi se non ci fossero le armi nucleari che molti hanno dipinto come garanti della sicurezza, garanti della pace, ma invece sono solo uno strumento grazie al quale Putin riesce a fare quello che ha fatto in Ucraina, sapendo in un certo senso di cavarsela in maniera impunita. Perché, ovviamente, l’escalation nucleare nessuno se la può permettere.
Avremmo centinaia di milioni di morti nelle prime ore, miliardi di persone a rischio vita nelle settimane successive. Ecco, allora, tutte queste prospettive ci dovrebbero far capire che forse, ascoltare coloro che da tempo dicono che la pace non si può creare aumentando le spese militari, che sono cresciute del 90% dal 2001 al 2020, in vent’anni più del 90%. Il mondo è più sicuro? No.
Invece, si fa il contrario. Si ascolta coloro che continuano a spingere in quella direzione, spesso e volentieri per interessi sia economici che politici. E quindi ancora una volta siamo di fronte al fatto che non si può non mandare le armi, questa guerra è diversa dalle altre. In cosa sarebbe diversa dalle altre, se non che ovviamente sono altre le persone colpite e sono altre le dinamiche di base? Ma l’orrore della guerra, lo schifo della guerra c’è sempre, comunque, ed è sempre lo stesso.
E l’abbiamo visto in Afghanistan, l’abbiamo visto in Libia e l’abbiamo visto in Iraq: mandare i flussi di armi, che poi non si sa chi le prenderà in mano, non si sa che fine faranno, non si sa cosa succederà alla fine del conflitto, aumenta solo il livello della guerra del conflitto e aumentare il livello del conflitto significa solo una cosa: più morti tra i civili, più persone che soffriranno, più semi anche di odio, che vengono gettati e di cui avremo da gestire le problematiche e le conseguenze negli anni a venire.
E poi la scelta di coinvolgere direttamente l’Europa. Per la prima volta, anche se c’è stata una militarizzazione dell’Unione Europea che abbiamo descritto, con fondi sempre più ingenti a disposizione dello sviluppo di armamenti, è l’Europa che ha deciso di acquistare e comprare armamenti e mandarli in Ucraina.
Attenzione, è interessante questo “acquistare”. Noi oggi, in queste giornate vediamo tantissime iniziative meravigliose di sostegno umanitario, anche che coinvolgono le nostre organizzazioni, e questo lo si rende possibile grazie al sostegno delle persone, che danno del proprio. Invece sulle armi da inviare in Ucraina, quelle le abbiamo pagate sull’unghia perché probabilmente a chi fa affari armati non interessa il contesto, vuole solo guadagnarci.
Tanto è vero che le principali aziende di produzione di armamenti statunitensi, europee e quindi anche italiane, hanno avuto un balzo in Borsa, dal momento in cui le prime notizie della guerra che veniva o che sarebbe venuta sono state diffuse, di più del 30%. Cosa vuol dire? Che qualcuno sta scommettendo sul fatto che loro approfitteranno di questa guerra, ancora una volta. E ne approfitteranno perché c’è una spinta verso il riarmo, c’è una spinta verso la crescita delle spese militari.
La Germania ha annunciato di voler raggiungere i 100 miliardi di euro all’anno; la Francia ha deciso lo stesso; Paesi spesso neutrali – come la Svezia e la Finlandia – vogliono andare sulla stessa strada. E anche in Italia un voto di indirizzo, per ora non vincolante, porterebbe il governo a spendere fino al 2% del PIL. Non vi sto a tediare. Potete trovare online tante cose che ho scritto sui motivi tecnici per cui questo parametro, diciamo, del 2% sul Pil, non ha giustificazione militare, non ha giustificazione operativa, è solo un modo per spingere verso l’alto la spesa militare. E oltretutto è inapplicabile perché uno non sa neanche quale sarà il PIL dell’anno in corso, figuriamoci quello dell’anno prossimo.
Tutto serve però davvero a crescere in queste spese e a sottrarre risorse a quelle che potrebbero essere le strade possibili di sistemazione delle guerre, ma soprattutto di prevenzione delle guerre. Molti ci chiedono, ma cosa fareste voi? Prima di tutto noi possiamo fare poco oggi, perché oggi non ci sono gli strumenti per intervenire nelle guerre in maniera non violenta. Quello che possiamo fare è sostenere gli strumenti che ci sono già: i movimenti in Russia, i movimenti pacifisti non violenti in Ucraina. Ma avremmo bisogno di altro.
Io sono l’uomo dei numeri. Dal 2014 in poi, cioè dall’anno in cui peraltro c’è stata l’invasione del Donbass e della Crimea da parte di Putin, dall’anno in cui è stato possibile fare una sperimentazione sui corpi civili di pace grazie a un piccolo emendamento nella legge di bilancio dello stesso anno, ecco, dal 2014 al 2021 fondamentalmente – ma possiamo anche già inserire il conto previsionale del 2022 -, l’Italia ha speso 190 miliardi di euro di spesa militare. Per i soldati, per le missioni all’estero, per i nuovi sistemi d’arma. Nello stesso periodo di tempo non è riuscita a spendere 9 milioni di euro, che se fate un grafico non si vede neanche comparato a quell’altro, per una sperimentazione sui corpi civili di pace.
Perché la burocrazia, perché è difficile, perché è una cosa strana. Ma a chi interessa? Ma quanto potremmo noi invece intervenire oggi con dei corpi civili di pace addestrati e strutturati, integrati in un tipo di risposta anche istituzionale? Qualche giorno fa, una carovana di pace organizzata dalla Società civile italiana, con oltre 65 mezzi, ha portato più di 200 persone a Leopoli per portare tra le 25 e 30 tonnellate di aiuti e riportare indietro 250 profughi. Ma era una cosa che abbiamo potuto fare come gocce nel mare. Perché? Perché non abbiamo una struttura che ci permetterebbe di farlo.
E in questo senso, il modo migliore per far finire una guerra è non farla mai scoppiare. Il modo migliore per far finire la guerra è non alimentare la preparazione armata che poi, prima o poi, sfocia in un conflitto drammatico, non per i potenti, non per coloro che decidono queste cose, ma per la popolazione civile, ma per i più deboli.
Un nonviolento non pensa che il conflitto possa sparire dal mondo? Il conflitto esiste, è parte della nostra umanità. Un non violento pensa che se si mettono in pista le strutture sociali, politiche, collettive, di creare le premesse giuste, il conflitto si possa trasformare in maniera non violenta, possa diventare un modo per dire “Io voglio una cosa, tu ne vuoi un’altra. Come possiamo trovare una terza che vada bene, anzi meglio, per entrambi?”
Ma questa cosa è difficoltosa. Questa cosa si fa quotidianamente. Questa cosa si porta avanti solo con scelte che non fanno rumore o che sembrano andare in un’altra direzione.
Facciamo un esempio in casa vostra: che EMERGENCY faccia i propri ospedali nei luoghi di conflitto e, ad esempio, coinvolga i locali nel lavoro, le donne nel lavoro in questi ospedali, fa e costruisce pace molto di più che tantissime dichiarazioni roboanti o di trattati sottoscritti. Vuol dire che non servono quelli? No, serve. Serve che i governi, le decisioni politiche vengano prese in un certo modo. Però non esiste un tessuto di vera pace positiva, quella che ci piace a noi, quella che vuol dire diritti per tutti, quella che vuol dire il rispetto della persona e della vita in primis, non esiste pace positiva se non esiste una risposta sociale della pace. E questo è quello che la nonviolenza vuole fare.
Il disarmo la prepara tutta questa cosa. Perché? Perché toglie le risorse e toglie gli strumenti per la guerra e crea degli strumenti per la pace.
Fra pochi giorni inizieremo la campagna internazionale contro le spese militari, una campagna che va avanti da anni a chiedere la riduzione di tutte le spese militari. Ecco, ecco dove erano i pacifisti quando nessuno li guardava o quando nessuno voleva guardare quelle guerre che non chiamerei dimenticate, ma ignorate, perché è diverso, è molto diverso.
E noi chiediamo la riduzione della spesa militare non solo per un pezzo e non solo per una questione etica e morale, ma perché sappiamo che un’altra strada potrebbe funzionare: con solo il 10% della spesa militare mondiale è stato calcolato che dal 2015 al 2030 si sarebbero potuti raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibili o quanto meno i principali tra essi, cioè cose piccoline tra cui eliminare la fame, l’accesso all’acqua per tutti, l’accesso alla sanità universale, l’accesso all’istruzione universale. Tutte cose che non solo migliorerebbero la vita di milioni e milioni, se non miliardi di persone. Ma attutirebbero, diminuirebbero le problematiche legate ai conflitti, che non sono basati, come sappiamo bene, su questioni in un certo senso teoriche o di nazionalismo o di principio, ma hanno un sotto strato di dinamiche sociali, economiche, politiche che, aumentando il benessere, diminuendo il conflitto dato dal fatto che qualcuno ha bisogno, verrebbero sicuramente ridotti.
Da sempre, però, le guerre vengono giustificate con qualcosa di alto, di impossibile da dimenticare. Pensate alla guerra di Troia, no? Era un problema di onore. Invece, sappiamo che sotto c’era un problema economico-sociale. Lo stesso succede o quando si agitano le finte prove delle armi di distruzione di massa o quando si dice non possiamo fare niente contro l’oppressore. Ma noi non vogliamo non fare niente. Noi vogliamo intervenire in maniera non violenta. Una resistenza non violenta che tutti gli studi dimostrano essere molto più efficace di quella violenta. Una resistenza che ti permette di intervenire a fianco delle vere vittime e di trasformare le situazioni non rendendole irreparabili, non rendendole endemiche. Perché ci sono alcuni ambiti nel mondo in cui magari non tuona il cannone, non ce ne accorgiamo, ma lì non c’è la pace, perché c’è una situazione endemica di differenza, di disuguaglianza, di conflitto latente.
Ecco, noi vogliamo intervenire in questo. Non facciamoci catturare dalle retoriche, catturare soprattutto le retoriche di chi, fatemelo dire, in maniera magari polemica, non si è accorto fino all’altro ieri che esistevano le guerre e in altri contesti ci diceva “eh, le nostre armi devono andare in quelle zone. Ne va dell’economia, ne va del nostro buon nome internazionale”.
No, noi abbiamo chiesto sempre che le armi non finissero nei conflitti ed è per questo che lo chiediamo anche nel conflitto attuale. Noi abbiamo chiesto sempre un percorso di coinvolgimento delle società civili locali. È l’unico modo per far la pace. Noi abbiamo chiesto sempre una strada diversa: una strada di non violenza, una strada di costruzione della pace che si può fare solo preparando la pace.
Non dobbiamo più basarci sul motto latino “si vis pacem, para bellum”. Il progresso è andato avanti, la storia è andata avanti, tante conquiste le abbiamo fatte. Abbandoniamo questi luoghi comuni che portano solo a una mentalità di guerra e cerchiamo davvero di costruire una pace partendo dai tre principi di base, dalle tre parole chiave che anche in questo conflitto la nonviolenza può portare: soccorrere, cioè mettersi in mezzo, aiutare i profughi, aiutare con corridoi umanitari; disarmare, perché è solo disarmando, solo mettendo giù le armi, come il titolo del vostro ciclo di incontri, che si potrà davvero cercare di ricostruire, quindi un cessate il fuoco, quindi una riduzione, un allontanamento delle posizioni; e alla fine negoziare, negoziare che non vuol dire cedere qualcosa, ma vuol dire capire che non è con l’orgoglio, non è con la finta posizione manichea granitica che si possono creare dei percorsi di pace, un cammino, che è una convivialità delle differenze e che si può raggiungere, dal nostro punto di vista, solo con strumenti e percorsi nonviolenti.