Quali sono le radici della guerra iniziata il 24 febbraio scorso con l’invasione dell’Ucraina? Quali saranno le conseguenze del conflitto ucraino sul piano della politica internazionale?

Alberto Negri, giornalista, ci guida nella comprensione di un conflitto sempre più complesso da inquadrare nelle sue caratteristiche e implicazioni.

Il video è stato registrato il 24 marzo. Prima messa online venerdì 1 aprile 2022

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La trascrizione integrale dell’intervento di Alberto Negri per “Giù le armi”

Siamo entrati ormai nel secondo mese di guerra in Ucraina e ci facciamo diverse domande su come può in qualche modo finire questo conflitto che è iniziato il 24 febbraio scorso con l’invasione russa dell’Ucraina.

Ebbene, questo conflitto ha radici, come dire, che affondano nel tempo. E forse lo abbiamo scoperto improvvisamente quando è deflagrato negli ultimi due mesi, durante i quali gli americani hanno lungamente avvertito che la Russia stava per attaccare l’Ucraina.

Già questi due mesi mi sembrano siano stati due mesi perduti. Perché? Perché al di là degli avvertimenti americani sull’invasione in Ucraina, vere iniziative diplomatiche o di altro genere che potessero in qualche modo evitare questa guerra non ce ne sono state. È da notare, tra l’altro, che la crisi tra Kiev e Mosca entra in fase acuta qualche tempo dopo l’uscita di scena della cancelliera tedesca Angela Merkel, che era stata, se vogliamo, quella che teneva il filo diretto con Putin. Lei parla russo, lui parla tedesco e quindi in qualche modo si intendevano.

Purtroppo il conflitto appunto ha radici nel tempo, perché già nel 2014 c’era stata una guerra che aveva portato da parte russa all’occupazione militare del Donbass e poi all’annessione della Crimea. C’erano stati due accordi. Si erano siglati due accordi su una piattaforma, quella di Minsk nel 2014 e poi ribadita nel 2015, dove c’era un percorso diplomatico per evitare l’intervento delle armi. Questo percorso diplomatico disegnava una struttura federale per l’Ucraina, con l’autonomia regionale delle due repubbliche del Donbass, autoproclamate repubbliche del Donbass, e il loro reinserimento come autonome regioni dell’Ucraina in un parlamento federale che avrebbe dovuto dare una rappresentanza a circa quel 30% della popolazione ucraina russofona.

Ebbene, questo percorso non è in realtà mai iniziato davvero e si sono persi altri sei, sette anni senza purtroppo mai arrivare a qualcosa di concreto. Insomma, la diplomazia ha agito poco, ha agito male, non è stata sostenuta e gli Stati Uniti hanno in qualche modo anche sostituito in buona parte gli europei in Ucraina. Nel senso che, a parte la signora Merkel, qualche incursione dei presidenti francesi, tra cui Macron tra gli ultimi, in realtà gli americani avevano messo sotto le loro ali l’Ucraina e l’hanno anche sostenuta dal punto di vista in vista del riammodernamento militare. Lo si è visto molto chiaramente in questo primo mese di guerra, dove i russi hanno incontrato difficoltà che forse non sospettavano potessero essere così forti, con una resistenza notevole e un Ucraina capace di controbattere, nonostante l’inferiorità notevole, notevolissima di forze tra Mosca e Kiev, capace comunque di creare dei problemi alla Russia.

Al punto che nei primi giorni del secondo mese, si è capito che eravamo entrati in una fase di stallo dell’operazione militare o perlomeno, più che di stallo, di grande difficoltà per i russi di cogliere quei successi che forse pensavano potessero essere così facili all’inizio. Questa situazione in qualche modo ha alimentato e sta forse alimentando ancora alcuni tipi di ipotesi, soprattutto da parte americana, cioè la possibilità che da una fase difensiva, puramente difensiva, da parte degli ucraini si possa passare a un conflitto di logoramento. Una sorta di conflitto per procura dove impantanare, come in una sorta di Afghanistan europeo, i russi che non riescono come dire, a dilagare, come si pensava nei primi giorni.

Questa ipotesi, questa ipotesi di un logoramento delle truppe russe, che c’è evidentemente sul terreno, però, è assai pericolosa. È assai pericolosa perché? Perché in qualche modo potrebbe spingere Mosca non tanto a una resa o a un cessate il fuoco, ma in realtà a una escalation ancora maggiore del conflitto.

Non a caso si è parlato negli ultimi giorni sia di armi chimiche che biologiche che nucleari. È evidente che più il conflitto prosegue e più questa guerra diventa pericolosa, diventa pericolosa soprattutto perché innanzitutto moltiplica le vittime tra i civili, oltre che tra i militari della parti di una parte e dall’altra. E poi il rischio di allargamento diventa sempre maggiore, di allargamento del conflitto.

La discussione, per esempio, sulla no fly zone, che finora è stata spesso esclusa con forza sia dagli Stati Uniti che dalla NATO, è riaffiorata ancora negli ultimi giorni. Il pericolo, poi, è di pensare che questa guerra possa in qualche modo dare un colpo decisivo al regime putiniano in Russia. Devo ricordare che nessuno in passato è riuscito a fare veramente con le sanzioni e con quelli di questo tipo ad abbattere il regime iraniano, ad abbattere il regime di Assad in Siria… Cioè, gli episodi del passato ci suggeriscono che ci dovrebbe essere una certa prudenza da parte delle potenze internazionali nel pensare che sia possibile e a portata di mano un cambio di regime a Mosca.

E invece se si imbocca, come sembrerebbe da parte americana, in assenza di un accordo tra Kiev e Mosca sul cessate il fuoco che in questo momento Putin non vuole, il conflitto per logoramento potrebbe invece moltiplicare le possibilità di uno scontro allargato.

La pace, o il pacifismo, insomma, ha perduto nei meandri della diplomazia in questi anni molte occasioni per sistemare questo conflitto. Però se dobbiamo riflettere su quello che può essere il futuro immediato dopoguerra la strada ci sarebbe. Perché con un cessate il fuoco, se fosse possibile un cessate il fuoco, si potrebbe cominciare, si potrebbero cominciare a esaminare alcune opzioni per stabilizzare la situazione.

Lasciando da parte per un attimo la questione della neutralità, assai complicata peraltro in un Paese che è fuori dalla Nato ma sta ricevendo il supporto militare dell’Alleanza Atlantica, ci sono alcune soluzioni per arrivare a una conclusione diplomatica, a una soluzione politica. Bisogna trovare una via di uscita, come dire sia per Zelenski che per Putin. Anche se Putin probabilmente non la meriterebbe, ma la merita la causa della pace.

La soluzione potrebbe essere quella di avviare un percorso sulla falsariga di quello di Minsk, ma in maniera magari diversa, conducendo per esempio dei referendum nell’area regionale del Donbass di Donetsk e Lugansk per chiedere alla popolazione qual è la soluzione politica che preferiscono. Indire un altro referendum sotto gli osservatori internazionali in Crimea. Già ce n’era stato uno ma sotto la Russia quando annessa nel 2014.

Quindi procedere secondo uno schema che forse è quello che garantisce meglio una stabilizzazione. Quello di incoraggiare e attuare l’autodeterminazione dei popoli. Secondo la Carta delle Nazioni Unite, ma secondo anche quelli che vengono propagandati come gli ideali occidentali.

Poi bisogna vedere naturalmente se la parte russa accetta questo, ma anche se accetta la parte ucraina. Perché gli ucraini non è che si sono seduti al tavolo di Minsk intenzionati ad arrivare a un accordo, anche perché ponevano come precondizione il ritiro della Russia da Lugansk e dalla Crimea. Ora queste condizioni non si sono rese possibili negli anni precedenti e forse non si renderanno possibili anche nell’immediato futuro. Quindi bisogna cercare di far cadere da una parte e dall’altra le precondizioni e capire dove si può arrivare.

Dovremo anche vedere fino a dove arriva l’offensiva, l’offensiva russa che abbiamo descritto in fase di stallo, ma che è vicina alla caduta di alcune città importanti, soprattutto nella fascia del Mar Nero, che è quella che strategicamente interessa di più Mosca in quanto costituirebbe la continuità territoriale tra la Crimea, il Mar d’Azov e il Mar Nero.

Ecco perché è difficile immaginare solo una guerra di logoramento. I russi cercheranno sicuramente di aumentare il proprio dispiegamento militare, forse di usare armi ancora più letali per arrivare a un obiettivo che non è più certo quello del cambio di regime a Kiev, ma quello di portare a casa probabilmente un successo con un orizzonte temporale. Un orizzonte temporale che potremmo immaginare potrebbe essere quello del 9 maggio, quando ogni anno a Mosca si tiene la sfilata famosa di commemorazione della fine della Seconda guerra mondiale. Per quella data, probabilmente, Putin vorrebbe sventolare un trofeo di fronte all’opinione pubblica russa.

Per quanto riguarda gli occidentali, gli europei e la Nato e gli Stati Uniti, c’è da rilevare in sostanza questo: in realtà la politica dell’Alleanza Atlantica in questi anni, anche questo caso lo ha dimostrato, si è sovrapposta a quella dell’Unione Europea, Unione europea che come sapete manca di una politica estera e di difesa comuni, che sta in qualche modo cercando di darsi frettolosamente di fronte a un conflitto quello che non si è dato per trent’anni, ma che poi di fatto ha sempre seguito l’agenda dell’Alleanza Atlantica.

Questo conflitto poi, per allargare gli orizzonti, è un conflitto che sta dando luogo a una sorta di deriva dei continenti. Cioè, se noi lo guardiamo dal punto di vista europeo, lo dobbiamo guardare in una certa maniera, ma se poi alziamo lo sguardo e vediamo quello che accade intorno a noi, beh, allora la riflessione sono parecchie.

Vediamo grandi paesi come la Cina, come l’India, che non hanno affatto condannato l’operazione militare di Putin. C’è un’invasione piuttosto barbarica, anzi direi barbarica del tutto, dell’Ucraina. Ci sono alleati stretti degli Stati Uniti che hanno condannato l’operazione militare ma non hanno imposto sanzioni a Mosca. Parlo di Israele che è uno stretto alleato di Washington da sempre e della Turchia, che è un membro della Nato dagli anni 50, cioè un Paese importante, incardinato sul fianco sudorientale dell’Alleanza Atlantica. Parlo anche di altri paesi come gli Stati arabi. Gli Stati arabi addirittura hanno fatto la pace in questo periodo con uno dei nemici degli Stati Uniti e degli occidentali, cioè Bashar Assad, ricevuto dagli Emirati Arabi Uniti che un tempo avevano finanziato la guerriglia, il terrorismo dei jihadisti e dell’Isis sul territorio siriano.

Paesi come gli Emirati, appunto, ma anche l’Arabia Saudita, hanno mandato chiari segnali di insofferenza nei loro confronti nei confronti degli Stati Uniti. Generati da che cosa? Beh, dal record disastroso negli ultimi vent’anni della politica americana e occidentale in una vasta area del mondo. Basti pensare al successo e l’insuccesso stratosferico dell’Afghanistan, con la ritirata disastrosa, ai bombardamenti in Iraq che hanno poi inghiottito nel marasma per vent’anni un intero Paese, ai bombardamenti in Siria che hanno gettato la Siria nell’anarchia e ancora oggi è un Paese senza alcuna stabilità, alla guerra di Siria. Questo solo per citare i maggiori. Ecco perché oggi noi guardiamo a una sorta di deriva dei continenti, che ha delle conseguenze e probabilmente avrà anche delle conseguenze economiche, perché penso che assisteremo a una sorta di deglobalizzazione.

Da una parte avremo un sistema euro-atlantico. Gli Stati Uniti leader della situazione e un’Europa ancora penso ancora più indebolita. Forse, a parte la Germania che ha deciso di farsi la sua di difesa investendo 100 miliardi di euro in spese militari. Questo tre giorni dopo la guerra, dopo l’inizio della guerra. E un fronte, un’area, direi asiatica, dove la Cina è sicuramente il paese più forte economicamente, finanziariamente, con la Russia e un’ampia parte del mondo dove dal Centro Asia fino al Medio Oriente e fino all’Africa vedremo un mondo che cercherà in qualche modo, se non di sganciarsi dagli Stati Uniti, di avere un atteggiamento molto critico rispetto all’America e all’Europa, che non hanno saputo garantire stabilità nelle loro aree e che oggi si sono trovati la guerra in casa.

“Giù le armi” è una serie di webinar di EMERGENCY, riflessioni per evitare la mobilitazione bellica della cultura e delle coscienze.