Donatella Di Cesare, filosofa e scrittrice, stimola una riflessione su cosa significa essere pacifisti e perché la pace oggi è l’unica possibilità.
Prima messa online: mercoledì 30 marzo 2022
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La trascrizione integrale dell’intervento di Donatella Di Cesare per “Giù le armi”
C’è una metafora molto diffusa a proposito della guerra che è la metafora della nebbia.
La guerra è anzitutto la nebbia, cioè il contesto bellico: il contesto di chi non distingue più e quindi asseconda la confusione. Potremmo dire che è una sorta di pigrizia mentale, di chi non opera quelle distinzioni che invece sono importanti per il pensiero, ma anche per la vita. Si dice in generale che la prima vittima della guerra sarebbe la verità, ma in realtà – a ben guardare – la prima vittima della guerra è, invece, il pensiero. Dov’è la pigrizia mentale? La pigrizia mentale è di coloro che per esempio non distinguono tra Putin e Hitler, che riconducono il contesto storico per esempio del 1938 a quello, molto diverso, del 2022. In questo senso certamente la nebbia è anche un’immagine della cecità. La guerra è cecità e potremmo già dire che la pace è una lotta contro la cecità. Che cosa vuol dire cecità? Cecità vuol dire intorpidimento, cecità vuol dire rigidità, irrigidimento. L’irrigidimento che noi viviamo anche in questi giorni, la militarizzazione dei fronti e lo schema binario di chi impone per forza di essere da una parte del fronte, di chi impone lo schieramento. O sei dalla parte degli ucraini o sei dalla parte di Putin.
Tanto più rigido è questo schema binario e tanto è più vergognoso il modo in cui vengono presi di mira i pacifisti. I pacifisti che sono quelli che non si schierano né da una parte né dall’altra e per questo devono sopportare tanti insulti. L’insulto per esempio di essere vili e di essere cinici, di essere ingenui. Al contrario essere oggi pacifisti vuol dire avere molto coraggio, per essere pacifisti bisogna avere coraggio e bisogna anche avere buoni amici, buoni compagni con cui dialogare con cui appunto dialogare, anche confrontarsi. Occorre disdire l’ordine bellico della militarizzazione e in questo senso il pacifismo non è per nulla la equidistanza, ma è quella distanza che è la distanza del pensiero che permette di interrompere la violenza, che permette di riflettere. E soprattutto permette di evitare quello che oggi è pericolosissimo cioè le semplificazioni, le scorciatoie. La via più difficile è sempre quella della complessità: interrogarsi sulle cause perché solo chi si interroga sulle cause può anche guardare alla soluzione. E allora certo, è vero, i pacifisti sono complessisti, come appunto qualcuno ha rilanciato in questi giorni, proprio perché non amano la semplificazione.
Oggi noi sappiamo che un altro grande pericolo è quello della mistificazione, la mistificazione è ormai da anni una figura politica molto molto pericolosa, molto rischiosa. Noi a questo proposito, va detto, va sottolineato, quando noi per esempio facciamo l’uso di simboli o di colori all’interno dello spazio pubblico, ebbene questo ha un valore simbolico, ha un valore politico. Allora per esempio chi innalza un drappo nazionale, quello dell’Ucraina, io lo rispetto, va benissimo, ma non è un pacifista. Chi in una piazza applaude al leader di una nazione in armi che chiede più armi, ebbene, non è un pacifista: questa sarebbe una grave mistificazione. Va bene naturalmente difendere un popolo aggredito, ma il problema come sappiamo, che impone la riflessione, che impone il pensiero, è se si difende un popolo aggredito con più armi, con più violenza e non invece con la pace subito. La mistificazione, fatemelo dire, è quella di chi per esempio brandisce il nome di Gino Strada, come è avvenuto in questi giorni, avendo una posizione esattamente opposta a quella del pacifismo.
E, importante, non esistono pacifismi diversi: non esiste come si vuol far credere un pacifismo integralista fondamentalista rispetto a un supposto pacifismo, come dire, più arguto, più oculato, più opportuno. Chi sostiene l’opposizione armata, chi sostiene l’invio di armi, non è un pacifista. O armi o pace. Un pacifismo in armi, un pacifismo belligerante è un ossimoro, è una contraddizione in termini e quindi non dobbiamo lasciarci fuorviare da questo e, lo sappiamo, purtroppo anche da quello che è accaduto che è accaduto in Europa anche nel Novecento. Perché coloro che si sono fatti fuorviare, appunto, i pacifisti che per esempio già nella prima guerra mondiale sono diventati interventisti hanno collaborato alla distruzione. Dunque attenzione, fuori da quelle circostanze casuali che ci spingono a stare dalla parte di chi commette violenza o di chi la subisce.
Oggi il compito, il primo compito, dei pacifisti è decostruire, smontare la propaganda bellica. Questa propaganda che ogni giorno diventa sempre più violenta e totalizzante. Propaganda, la parola propaganda è importante, non vuol dire soltanto diffondere le notizie, propaganda vuol dire anche consolidare, perché la propaganda consolida i fronti, consolida gli schieramenti e naturalmente contribuisce anche alla retorica, all’irrigidimento delle parole. Retorica è il modo in cui oggi viene usata la parola “resa”. La parola “resa”, arrendersi, fa parte del linguaggio militaristico, fa parte del linguaggio bellico, e viene usata al posto della delle trattative, della negoziazione. Chi è pacifista crede nella negoziazione e soprattutto crede nella parola “oltre i fronti” e quindi nella possibilità di oltrepassare la violenza che è sempre l’immediatezza rozza. Questo appunto vuol dire guardare al negoziato, guardare alle trattative per non perdere ancora più vite umane e soprattutto per evitare il sacrificio inutile.
Empatia? Io in questi giorni ho visto come tutti immagini che ci angosciano, immagini che ci addolorano, immagini – per esempio – di anziani inermi rimasti soli che nessuno può aiutare sotto le bombe… Chi non prova angoscia? Chi non prova dolore? Però attenzione, perché l’empatia e basta è pericolosa, perché è necessario sempre riflettere, perché il passo verso l’identificazione automatica è un passo breve. Io per esempio non mi identifico con quelli che vengono proclamati eroi, con gli ucraini in divisa e con i russi in divisa che inneggiando naturalmente a parole di violenza con canti nazionalistici combattono per la loro terra. E vorrei dire: mai ammirare la violenza. Mai odiare i nemici.
Ho letto in questi giorni, in cui si parla ormai di una sorta di nuovo scontro di civiltà che gli ucraini stanno combattendo per noi, stanno combattendo per i nostri valori, e mi sono chiesta quali valori? Ci viene detto la libertà, la democrazia, ma poi anche la patria, l’identità nazionale, la terra. E ho l’impressione che proprio questi ultimi siano i valori fondanti. E mi chiedo: sono passati in Europa tanti anni e tanti decenni invano? Forse non aspiravano a una Europa dei popoli oltre gli Stati nazionali? Non un’Europa delle patrie, un’Europa delle nazioni, ma un’Europa della convivenza, della coabitazione con l’altro? La nazione è un criterio etnico e discriminatorio ed è sempre più pericoloso. Lo vediamo da una parte, dalla parte dei russi, dalla parte degli ucraini ed è sempre più pericoloso perché le popolazioni europee sono sempre più miste nel mondo globalizzato. Gli Stati usano la nazione per rinsaldare i propri confini. La nazione usa lo Stato per la propria fantomatica integrità, purezza etnica. Entrambi, stato e nazione, sono pericolosi i miti del passato, per non parlare della patria.
La patria per me è una parola grottesca, è la terra dei padri, è il mito della autoctonia: cioè pensare che io sono nato in questa terra, appartengo a questa terra e la terra mi appartiene, e dunque ho il diritto sovrano di respingere e di rifiutare fino all’eliminazione dell’altro. Questo è un mito pericolosissimo. In fondo è anche un mito pericoloso quello della sovranità: l’idea cioè che noi saremmo sovrani, che c’è un soggetto sovrano. Vale per l’individuo, vale per un popolo.
Sappiamo già, anche grazie alla pandemia, che non c’è prima la mia libertà, ma la mia libertà si coniuga sempre con la libertà dell’altro. La vita umana è più importante della patria, la vita di bambini, di donne, di anziani… e basta con il sacrificio per i valori. Addirittura, oggi nel ventunesimo secolo.
Dunque disertiamo i nazionalismi, questo vuol dire anche disertare, e svincoliamoci da questi valori distruttivi: mettiamo in discussione questo ordine bellico. La pace non viene da sé, la violenza è immediata, la pace non viene da sé. La pace richiede un grande sforzo ed è lo sforzo di non odiare il nemico e questo sforzo è il contrassegno dei pacifisti. Certo non tutti riescono perché è più facile lasciarsi andare alla violenza, all’omicidio, all’uccisione. La guerra è proprio questo: l’altro è trasformato in cosa, l’altro è trasformato in oggetto. C’è questa reificazione dell’altro per cui l’altro non è soltanto il nemico ma, appunto, un oggetto che posso eliminare, un ostacolo sulla mia strada. La guerra per questo motivo schiavizza tutti. La guerra è la realtà nella sua evidenza, è la dura realtà nella sua evidenza, è la durezza della realtà. Però la realtà muta, la realtà senza parola e la realtà brutale appunto dei valori immediati.
La pace interrompe la violenza, la pace è interruzione. Chi vuole inviare armi accetta di fare ipocritamente la guerra con il corpo altrui e perciò accetta la guerra per procura. Noi già negli ultimi anni abbiamo visto tante guerre per procura e anche tante guerre cosiddette giuste. Non esiste la guerra giusta, la guerra giusta è una contraddizione in termini, la guerra giusta è un ossimoro. Non c’è giustizia dove c’è la guerra. Quali sarebbero i criteri di una guerra giusta? Finché noi, come accade in questi giorni, accettiamo questo rischiamo di seguire questo valzer apocalittico che stanno già danzando i mercanti di morte. Un valzer apocalittico perché appunto, lo sappiamo, ormai si parla come se fosse un’ovvietà di nucleare.
Penso che in questi giorni la violenza di questa propaganda militarista la dice lunga sullo scopo, sui fini ultimi. Perché si vuole preparare la popolazione, soprattutto si vogliono preparare quelli che saranno colpiti i più deboli, i più poveri, i più inermi, alle conseguenze devastanti della guerra. Tutti quelli che hanno già pagato, tutti quelli che hanno pagato anche con la pandemia, dovranno di nuovo pagare. Non si parla più di investire nella ricerca, nella cultura, nell’educazione. Avevamo sperato in questo, in un nuovo capitolo della storia dell’Europa e invece al contrario si parla di armi, di tante specie diverse di armi, e soprattutto si parla di riarmo dei singoli paesi europei. E questa sarebbe l’Europa compatta che alcuni elogiano? Questa sarebbe la compattezza dell’Europa? Quella di un’Europa in armi? Non vogliamo questo.
La pace non è un’ingenuità, la pace non è la sospensione morale della politica in armi, non è tanto meno la condotta di anime belle e sprovvedute. La pace è oggi l’unica salvezza nel mondo globalizzato: noi non dobbiamo mai dimenticare che questa guerra è una guerra tra due Stati nazionali e molto nazionalistici all’interno dell’Europa, ma nello scenario della globalizzazione. E allora dobbiamo pensare che la pace non è di là da venire. La pace è l’aldilà della guerra. La pace è la prospettiva di chi guarda, di chi solleva lo sguardo e guarda all’alternativa, alla possibilità oltre l’ordine bellico degli schieramenti. La pace non può più essere oggi un concetto negativo, non si prepara la pace attraverso la guerra, la pace non viene dopo la guerra, la pace viene prima della guerra e la pace è proprio questo, cioè il riconoscimento che l’altro viene prima di me e che io sono io grazie all’altro. Questo vale per tutti noi e vale anche tanto più per i popoli. Noi abbiamo ormai sullo sfondo lo scenario di una Terza Guerra Mondiale, lo scenario del nucleare, uno scenario come dicevo apocalittico: non si può misurare il rischio, non si può misurare il fattore della imprevedibilità. L’operazione di appropriarsi del nemico, di appropriarsi dell’avversario, rischia di capovolgersi anche nell’auto-annientamento di sé. Questo è lo scenario di oggi, del nucleare. In breve, in una Terza Guerra Mondiale nessuno si salverà. Questo lo sappiamo. E allora non seguiamo la danza macabra dei mercanti di morte. Altrimenti non avremmo la pace giusta in Europa ma avremmo, come dice Kant, la pace perpetua dei cimiteri e della morte. Grazie mille.
“Giù le armi” è una serie di webinar di EMERGENCY, riflessioni per evitare la mobilitazione bellica della cultura e delle coscienze.