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Summit NATO di Madrid, il commento di EMERGENCY

Il vertice NATO che si è tenuto a Madrid questa settimana segna una svolta epocale. L’invasione russa in Ucraina ha offerto un rinnovato vigore a un’Alleanza quasi addormentata. Si è discusso di aumentare le forze di intervento rapido passando da 40.000 a 300.000 militari in Europa, allargare l’Alleanza a Finlandia e Svezia, consolidare l’impegno da parte degli Stati Membri di aumentare le spese militari per arrivare alla proclamata soglia del 2% di spese per la difesa in rapporto al PIL.

A poche ore dall’inizio del summit, la Turchia – il membro più reticente ad appoggiare l’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO – ha dichiarato il ritiro del proprio veto poiché un accordo è stato raggiunto con i Paesi candidati. L’intesa purtroppo avrà un caro prezzo per il Partito Kurdo dei lavoratori (PKK), ufficialmente “organizzazione vietata”, ma anche per i curdi siriani del YPG, proprio coloro che sono stati in prima linea nella lotta all’ISIS. I loro sforzi contro il terrorismo sono stati dimenticati in favore di una nuova minaccia.

Allo stesso tempo, sono stati confermati gli aiuti militari all’Ucraina per tutto il tempo necessario. La Russia è passata da “partner strategico” a “minaccia più significativa e diretta per la pace e la sicurezza dei Paesi Membri”, mentre la Cina rappresenta una sfida “sistemica” agli interessi, i valori e la sicurezza della NATO. Una lotta a 360° fra i “leader autoritari” e i rappresentanti delle democrazie occidentali che vogliono difendere i propri valori. Questi alcuni dei punti cardine del nuovo Concetto Strategico approvato ieri, il primo dal 2010. Le conseguenze pratiche di questo nuovo approccio? Più soldati in Europa (Italia inclusa), più armi e più basi lungo il confine orientale. La NATO, che resta un’alleanza nucleare, ha poi rivolto uno sguardo verso Africa e Mediterraneo e uno ad est verso l’Indo-Pacifico, per cui erano presenti a Madrid Giappone, Sud Corea, Australia e Nuova Zelanda nel segno di una nuova Alleanza Globale.

Sappiamo però che la corsa al riarmo non ha mai contribuito a maggiore sicurezza. Lo conferma il fatto che le spese militari sono cresciute, ma il Global Peace Index è peggiorato dal 2014. L’Istituto di Ricerca sulla Pace di Oslo riporta che, dallo stesso anno, i conflitti violenti sono in progressivo e inesorabile aumento; inoltre, il 2020 è stato dominato da molti degli stessi conflitti presenti 30 anni fa. È evidente che qualcosa non ha funzionato se continuiamo a riproporre lo stesso modello di risposta ai conflitti: armarsi o armare.

Ciononostante, già prima dello scoppio della guerra in Ucraina, in linea con gli impegni di “burden sharing” assunti nel 2014 dai membri della NATO, l’Italia aveva previsto di aumentare la propria spesa militare per dotare il Paese di una difesa più significativa: quasi 26 miliardi previsti dal ddl Bilancio, 850 milioni in più. Secondo l’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane si tratta di un aumento percentuale del 3,4% in 12 mesi “e un balzo di quasi il 20% in tre anni”.

Le principali voci di costo sono i nuovi armamenti. Fra questi richiesti compaiono i cosiddetti “droni kamikaze”, velivoli a comando remoto in grado di abbattersi sul bersaglio attivando una testata esplosiva. I droni saranno forniti anche alle forze italiane attive in Iraq, in forte distonia rispetto agli obiettivi ufficiali di formazione e non di combattimento della missione NATO nel Paese, di cui l’Italia ha assunto il comando il 10 maggio scorso, che porta a 4 le missioni internazionali multilaterali a guida italiana.

Al conto, vanno aggiunti anche altri nuovi strumenti di supporto alle spese militari, a cui l’Italia partecipa. Primo fra tutti l’European Peace Facility, fondo fuori bilancio istituito a marzo 2021 che, nonostante il nome suggerisca il contrario, supporta le iniziative militari internazionali europee ed è stato utilizzato per l’invio di armi in Ucraina. Non amministrato da alcuna istituzione europea, il fondo si trova in un “accountability limbo”, eppure dispone di oltre 5 miliardi di euro per il periodo 2021-2027. Se nel 2021 per l’Italia ha contributo con 52,5 milioni di euro, con lo scoppio della guerra in Ucraina la partecipazione è già arrivata a circa 187,5 milioni di euro e potrebbe aumentare ancora.

I nuovi teatri di guerra si moltiplicano con conseguenze a lungo termine sui civili. Le esperienze recenti ci insegnano che conflitti sociali, economici e politici – radicatisi e sviluppatisi nel tempo – non trovano rimedio nelle armi. In un Paese come l’Iraq, in cui EMERGENCY lavora dal 1995, che ha subito quasi 30 anni di guerre, continuare a usare la strategia dell’impegno e del supporto militare – anche se in ottica preventiva o di stabilizzazione – non può che essere controproducente. 2.1 milioni di persone hanno ancora bisogno di assistenza umanitaria, la metà si stima siano minori di 18 anni. Così come l’Afghanistan, recentemente colpito dall’ennesimo disastro naturale che si somma a una delle più complesse crisi umanitarie attuali, il cui futuro è in bilico in mancanza di istituzioni stabili, un’economia funzionante e servizi essenziali accessibili e gratuiti per la popolazione.

La corsa agli armamenti non costruisce un futuro, ma offre un circolo vizioso di violenza e instabilità, ben lontano dagli obiettivi di pace e non belligeranza che la nostra Costituzione ambiziosamente intendeva tutelare. È invece la costruzione di iniziative di dialogo e pace, di relazioni di fiducia e spazi permanenti di scambio e comunicazione che ci aiuterà a vivere in modo diverso su questo pianeta come membri della stessa specie.

Non è una questione di risorse che mancano, ma di scelte che non si fanno. È arrivato il momento di decidere che priorità ci diamo come società: la vita delle persone o la guerra? Salute, istruzione gratuite, un lavoro dignitoso e protezione o fame e sofferenza per molti? Non è troppo tardi per andare in una direzione più giusta. Non è troppo tardi per far sentire la nostra voce come cittadini del mondo.

Gino Strada