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Un “posto sicuro”

N. disegna macchine, solo macchine in movimento, e una casa da cui partono.

È arrivato qui a Balti, in Moldavia, dopo un viaggio di 72 ore dall’Ucraina insieme a 5 dei suoi 6 fratelli e sorelle. La più grande aspetta un bambino, è al sesto mese. Al volante la mamma, A.

Il fratello maggiore, il papà e lo zio sono rimasti a casa, dall’altra parte del “border”.

Visitiamo A. Ha mal di testa, forte, e vuole essere sicura che non sia nulla di grave, perché deve essere sana e sentirsi bene per poter accudire tutti, ci dice. Mentre racconta, piange: è affaticata, il viaggio è stato “indicibile” e porta ancora addosso a sé tutto ciò con cui è partita.

Dopo la visita medica, A. ci chiede di poter avere un colloquio psicologico.

“Non sento mio marito, mio figlio e mio genero da tre giorni. Ho infranto la regola che ci eravamo dati alla partenza: che ci avrebbero cercato loro, che noi non dovevamo chiamare. Ma non ce l’ho fatta. E non ho avuto risposta. Dico ai miei figli che stanno sicuramente bene. Ma mi chiedo come loro possano credermi, se io stessa non ci riesco”.

A. ci ringrazia perché ha trovato un “posto sicuro” in cui poter piangere, dire la sua angoscia senza timore di andare a pezzi. Tremano le sue mani, con le unghie curate come le aveva in quei giorni così normali, “come sempre”, prima che iniziasse l’impensabile.

Sfioro le sue dita con le mie e le propongo di provare a respirare insieme, “facciamo così “. Il sollievo passa dagli occhi e possiamo iniziare a decidere assieme alcune piccole cose da fare: andare a ritirare i pacchi alimentari e i vestiti, cucinare il piatto preferito da tutti…

E tornare al Politruck, il nostro “camion rosso”, il giorno dopo con la figlia più grande, “che so che prova la mia stessa paura senza dirmelo, e ha invece bisogno di farlo, come sto facendo io“. Scendiamo: N. ci aspetta, tranquillo. Dalle mie tasche prendo un palloncino e lo gonfiamo assieme: respiri lunghi e profondi che distendono anche lui.

Prima di salutarci prendo un coniglietto di cioccolato e glielo porgo. Lo prende ma mi dice che non basta, ci sono il suo fratellino di 2 anni e le tre sorelle che lo aspettano. Con le dita conta i coniglietti sino a 5, uno per volta, dà la mano alla mamma, nell’altra il palloncino e in tasca i coniglietti.

Lo salutiamo mentre si mette in fila dall’altra parte della strada, con altre donne e bimbi come lui, in attesa del turno per ritirare gli aiuti.

— Giovanna, psicologa di EMERGENCY, fa parte del nostro team in Moldavia. Sull’Ambulatorio mobile, a Balti, offriamo cure mediche di base e infermieristiche e un servizio di supporto psicologico. Molti pazienti – persone in fuga dalla guerra in Ucraina – presentano sintomi di somatizzazione per via dello stress post-traumatico da conflitto.

La paura, per sé e soprattutto per chi è rimasto, il dover lasciare la propria abitazione, i propri cari, i propri ricordi, portandosi dietro pochi bagagli che riassumono una vita intera: la guerra è anche questo.

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