Un nostro team in Romania e Moldavia, per fare una ricognizione dei bisogni e per un intervento in aiuto dei profughi in fuga dalla guerra in Ucraina
In questi giorni un nostro team è in Romania e Moldavia per fare una ricognizione dei bisogni e valutare la possibilità di un nostro intervento sul campo in aiuto dei profughi in fuga dalla guerra in Ucraina.
Andrea è uno dei membri di questo team. Oggi ci ha mandato questo messaggio. Lo vogliamo condividere con voi.
“Siret è una piccola cittadina a nord della Romania al confine con l’Ucraina.
Le strade statali che la collegano a Iasi, la città più importante a nord, sono polverose e passano per paesi di campagna con case di legno e piccoli allevamenti avicoli dove ogni tanto passa un carretto trainato da un cavallo.
Quando ci fermiamo per un caffè, la gente ti accoglie con sorrisi e gentilezza.
La gente dei piccoli borghi ha una gentilezza che non dipende dal parallelo geografico. È così e basta.
Arriviamo a Siret alla mattina presto, il cielo è nuvoloso, il freddo pungente e profondo.
Lungo la stradina che collega Siret verso il punto estremo della Romania le associazioni si sono organizzate: ci sono cibo, kebab caldo, zuppe di lenticchie, vestiti. La macchina umanitaria paneuropea e romena si è attivata e c’è grande dignità. Si sente subito, più del freddo che non ti lascia spazio per pensare.
Saliamo su un van dei locali vigili del fuoco, che fa spola da Siret al punto di entrata del confine.
In mezzo a telecamere, giornalisti e operatori umanitari si vedono gli ucraini. Lunghe file di trolley, di madri e bambini.
Il flusso non si ferma. È silenzioso, dignitoso, ma non parla. È scioccato: non ci può essere altra reazione ad una brutalità così reale.
Il flusso non si ferma neanche di notte. Stamattina, nella hall del nostro albergo, le poltrone erano occupate da nuovi arrivi.
Esco e vedo una macchina parcheggiata a fianco dell’hotel. Parlo con Vladi (nome di fantasia), che aveva dormito dentro. “È terribile quello che sta succedendo”, mi dice. I suoi occhi portano i segni della incredulità di fronte alla stupidità della guerra che, come diceva sempre Gino, viene decisa dai potenti e dai facoltosi ma poi la devono fare – e subirne le conseguenze – i poveri e la gente comune.
Sono gli stessi sguardi attoniti e terrorizzati che ho visto nelle vittime dei terremoti, dello sfruttamento nelle campagne del sud Italia, agli sbarchi in Sicilia, nei recuperi nel Mediterraneo Centrale e tra gli indigenti delle periferie delle grandi città italiane.
Risaliamo nel pullmino dei vigili del fuoco con un nuovo gruppo di profughi che hanno appena passato il confine a Siret.
Si mette al mio fianco un ragazzino che avrà 10 anni, l’età di mia figlia. Ha il suo zainetto sistemato con cura e tiene stretto un cartoncino tra le mani.
Faccio per alzarmi e lasciare il posto alla madre, che mi guarda e mi fa capire che va bene così.
Il pullmino è pieno e la madre si siede davanti, a fianco del guidatore.
Appena si siede scoppia a piangere, silenziosa con una dignità che solo una grande sofferenza riesce a dare.
Non si fa vedere dal figlio, riesce ad asciugarsi le lacrime con un fazzolettino, che presto non le contiene più e diventa sempre più piccolo.
Scambia qualche parola con il vigile del fuoco alla guida. Poche parole, lingue diverse ma stessa umanità a tradurle.
Il bambino apre lentamente il suo cartoncino. Non smette mai di guardarlo e lo tiene con entrambe le mani.
Ci sono disegnati due cuori con il segno algebrico dell’uguaglianza in mezzo. I due cuori hanno i colori della bandiera ucraina e rumena. Il bambino li ha disegnati benissimo, senza sbavature.
Mi emoziono, ma la mascherina mi protegge anche un po’ dai miei sentimenti.
Per tutto il breve tragitto non riesco a non rimanere focalizzato su quel meraviglioso disegno, che ha una purezza genuina e originaria e che per me rimane un grande messaggio di geopolitica dell’umanità”.