“Un altro pezzo raggiunge gli altri”
“Il film che si vede da qua è quasi sempre lo stesso.
Stessa trama, stessa ambientazione, spesso stesso finale. E stessi protagonisti, soprattutto.
La processione di gente che entra in pronto soccorso per poi distribuirsi nei reparti sembra una catena di montaggio impazzita, a tratti frenetica, velocissima, che fai fatica a stargli dietro come Chaplin su Tempi Moderni, per poi rallentare di botto, come se il nastro di pezzi stesse finalmente per finire, e invece riprende di nuovo, più forte di prima, carica di altri pezzi.
E per quanto sia brutale dirlo i pezzi sono sempre gli stessi, bullet, shell, mine, shell, bullet…
Dentro persone.
Eppure a me oggi m’ha colpito uno in particolare, niente di diverso, neanche uno di quelli messi peggio, come quando sul solito film passa una scena, non la più importante e neanche la migliore, e che pure se l’hai vista cento volte t’è passata sempre davanti senza lasciare traccia.
C’è un uomo in piedi, davanti alla scrivania del pronto soccorso, parla con l’infermiere.
È alto, grosso. Ha un vestito afgano, una casacca lunga fino alle ginocchia color carta da zucchero e un paio di pantaloni della stessa stoffa, larghi come vanno qua, che finiscono su un paio di piedi sporchi infilati in dei sandali di gomma.
Ha un volto scavato, la barba lunga fino al petto, nera come la pece, gli occhi di ghiaccio, sembra uscito da un libro di storia antica. Un volto biblico sormontato da un turbante ampio, di un bianco lucente che contrasta col colore della sua pelle bruna.
Parla con l’infermiere, in una lingua straniera e dura.
Rimango a guardarlo per un po’.
Come te lo hanno descritto il mostro, negli ultimi anni?
Come te lo sei immaginato, come te lo ha raccontato la gente in tv, le persone al bar, le pagine dei settimanali?
Così. Eccolo lì, il mostro. A pochi centimetri da me.
Solo che adesso il mostro piange, le lacrime gli rigano il volto e si perdono tra i peli della barba.
Parla con l’infermiere, inghiottendo i singhiozzi, e si asciuga gli occhi con la coda del turbante.
Si asciuga gli occhi per vedere il figlio di 8 anni, che è disteso qua vicino a me, su una barella del pronto soccorso, con la faccia bruciata e il braccio che gli pende fuori dal letto e che finisce improvvisamente prima del polso.
Lui no, non piange, dagli occhi non escono lacrime perché non funzionano, non ancora almeno. Ma con la bocca ci dice che quella cosa luccicava.
Stava per terra, luccicava e lui l’ha presa. Semplice no?
Voglio dire, se hai otto anni, vivi in Helmand, sei lì che giri nei pressi di casa per le strade impolverate dalla sabbia del deserto, i tuoi giochi son quelli fatti in casa, quelli che forse ci han raccontato i nostri nonni, una palla rattoppata o qualche pezzo di legno intagliato che la mente trasforma in una pistola, in un leone, o in una macchinina. Sei lì per strada e vedi una roba per terra che luccica, non sai cosa sia ma la prendi.
E siccome non sai cosa sia te la porti vicino agli occhi, per vedere meglio, per capire se possa essere interessante.
Un lampo.
L’infermiere ha finito di parlare, il mostro imprime il suo pollice nel tampone di inchiostro, poi lo schiaccia su una pagina della cartella clinica scritta in pashto. Dice che acconsente all’amputazione della mano sinistra e all’intervento per cercare di salvare la vista. Poi esce dal pronto soccorso, le regole sono uguali per tutti, i parenti aspettano fuori.
L’infermiere sgancia il freno alla barella, la spinge oltre la porta che dà verso i reparti.
Un altro pezzo raggiunge gli altri”.
— Roberto, infermiere di EMERGENCY in Afghanistan