“La vita spesso ti sorprende. Nel bene e nel male”.
La vita spesso ti sorprende. Nel bene e nel male.
È sera, esci dalla sala operatoria, la giornata sembra finalmente finita. In un Paese in guerra, alcuni giorni sono più lunghi di altri, alcuni più sopportabili di altri.
Passi per il pronto soccorso, ti accorgi che c’è una paziente, le stanno facendo un’ecografia. Poco prima avevi sentito annunciare il suo arrivo alla radio, ma non ti ricordi di ferite all’addome. Ti concentri e cerchi di ricordare.
La voce scricchiolante della radio diceva “ferita da proiettile, parte posteriore del petto”. Non “addome”. Vai a controllare. È una ragazza di 26 anni incinta di 36 settimane, l’ecografia dice che il bambino sta soffrendo. Ci dobbiamo sbrigare.
Ti rivesti di verde e torni nell’arena. Ti ritrovi con un team che sembra ormai lavorare insieme da anni. Ogni mano sa cosa fare, sembra una danza confusa per chi non è abituato ma chi guarda bene vede la sintonia perfetta dei passi. I chirurghi sono pronti: cesareo d’emergenza.
Abdul Ghafar aspetta il momento esatto per dare l’anestesia. Sei lì vicino, lo sguardo della donna fisso nel tuo: ha paura, sembra spenta.
Le sue ferite sono vecchie di dieci ore, un vicino l’ha portata all’ospedale, lei è in shock, il bambino ne ha sofferto molto, troppo. Questo è un ospedale per feriti di guerra. Non siamo equipaggiati. Ma l’esperienza delle situazioni fuori dall’ordinario fa sì che anche in questa situazione ognuno sappia cosa fare. Prepariamo un tavolino con delle flebo calde e dei teli sterili. Può funzionare, non è un’incubatrice ma può aiutare. Aspirazione pronta. Le mani pronte ad accogliere quella piccola creatura.
Dopo pochi secondi ti ritrovi in mano la bambina. La pelle è blu, non respira, le fai qualche massaggio, la metti al caldo. Ci spostiamo nella sala accanto. Fa qualche respiro, c’è battito. Passa meno di un minuto, è troppo debole. Arresto cardio-respiratorio. Inizi a massaggiare, Abdul riesce a intubare e trovare una vena, viene anche Rahmatullah, chirurgo.
Fino a quando potrà resistere? Ce lo chiediamo tutti, in silenzio. Nessuno vuole dare una risposta. I farmaci hanno fatto battere il cuore ma non abbastanza. Noi non ci arrendiamo, i minuti sono molto lenti, sembra di sentire il ticchettio dell’orologio. Sono passati ormai quaranta minuti.
Ma la vita spesso ti sorprende, a volte con un semplice “toc toc”. Il cuore riprende a battere, forte, pieno. È ancora lento, ma forte. Siamo esausti e pieni di nuove speranze. Ci guardiamo, consapevoli del fatto che se non riprende anche a respirare da sola è tutto inutile.
La speranza è palpabile. Abdul Ghafar prende un foglio. Registra la nuova paziente. Nome: Sarah. Ti guarda, le ha dato il tuo nome. Dice che lo dirà lui alla madre, se sopravvivrà.
La madre nel frattempo è stabile, ma perderà la gamba. È ora di andare a casa, è tardi. Abdul e Rahmatullah restano accanto alla bambina, ventilando a mano, anche tutta la notte se necessario, sperando non arrivino altre emergenze. Ti fidi e speri tanto in un miracolo.
Siamo a casa quando arriva la loro chiamata. E, mentre mi parla, la voce di Abdul Ghafar viene interrotta… dal pianto di Sarah.
— Sarah, infermiera di Emergency a Lashkar-gah, Afghanistan