In Moldavia, un primo supporto psicologico per chi fugge dalla guerra in Ucraina
Sul nostro Ambulatorio mobile a Balti, in Moldavia, offriamo assistenza sociosanitaria a chi fugge dalla guerra in Ucraina. Persone che hanno dovuto lasciare tutto, spesso all’improvviso. Oltre a cure di base mediche e cure infermieristiche, sul Politruck garantiamo anche un servizio di supporto psicologico.
Giovanna, la psicologa-psicoterapeuta, ha già lavorato con noi in Centro Italia, nel progetto “Sisma”, dove ha avuto esperienza nella gestione dello stress post traumatico e dei disagi di natura psicologica nei contesti di emergenza e di displacement.
I pazienti che stiamo curando nel nostro ambulatorio mobile
Gli adulti costituiscono la maggior parte dei pazienti. Molti hanno un’età superiore ai 65 anni, alcuni sono ultraottantenni; sono per lo più malati cronici (ipertesi, diabetici) che accedono all’ambulatorio per riprendere i controlli necessari, interrotti in modo imprevisto a seguito del conflitto e della fuga. Altri lamentano problemi alle vie aeree, dolori osteo-muscolari dovuti al lungo viaggio, gastriti o gastroenteriti.
“Negli individui fragili, come i pazienti con patologie croniche e gli anziani, dover lasciare la propria casa, piena di ricordi e con la paura di non ritrovarla più, fuggire con in mano una busta che contiene pochi oggetti che riassumono una vita intera, allontanarsi dai propri affetti, impegnati in un contesto imprevedibile e ad alta tensione, incide ovviamente sulla salute fisica e psicologica della persona” ci racconta Giovanna.
Il nostro approccio è multidisciplinare: la psicologa affianca il mediatore nell’accoglienza al paziente, quando ne raccoglie la storia e gli eventi “prima” e “dopo” il 24 febbraio. Allo stesso modo, “proprio perché sappiamo che nelle situazioni di emergenza spesso il corpo parla ed esprime l’emozione a cui ancora non si può dare parola”, la psicologa è presente durante le visite mediche: anche dai segnali fisici è possibile cogliere segni legati all’emotività e dare loro spazio, proponendo un colloquio psicologico.
Un intervento di primo supporto psicologico
Quello che offriamo sul Politruck è un intervento psicologico che ha lo scopo di contenere e ridurre il disagio dovuto alla reazione all’evento traumatico e le possibili ripercussioni sullo stato di salute psicofisica della persona: “sviluppare un’ottica di intervento breve, specialistica, orientata al trattamento della crisi e desensibilizzare quei segnali di disturbo già presenti nelle prime settimane. Si ottimizzano i tempi della cura e si evita che si accumulino, nel tempo, ad altri disturbi” continua Giovanna.
“Nel colloquio in contesti di questo tipo cerchiamo di non lasciare nulla in sospeso, perché la persona non sa quanto rimarrà qui o se si sposterà ulteriormente.
Spesso proponiamo un secondo appuntamento, anche per gli effetti benefici dell’avere un impegno per chi vive in questo stato di ‘sospensione’: alcuni accettano subito, altri vogliono aspettare e capire come si sentiranno nelle ore successive al colloquio o se saranno ancora qui, perché sperano di tornare a casa presto; altri ancora tornano, anche solo per ringraziare e dire che si sentono meglio”, spiega Giovanna.
“Lavoriamo anche con tecniche di desensibilizzazione per allentare il clima emotivo di attivazione ed urgenza determinati dalla situazione. Un’altra problematica che emerge spesso nei colloqui l’incapacità di ‘spegnere il cervello’, di disconnetterlo, anche di notte, ostacolando così il riposo e i processi fisiologici di ristorazione e recupero.
È il caso di una paziente di 20 anni, che ha lasciato in Ucraina il ragazzo e la sorella. Le abbiamo dato alcune indicazioni di tipo psicoeducativo, come quella di guardare le notizie solo una, massimo due volte al giorno, e di evitare di farlo all’approssimarsi della sera.
Quando abbiamo scoperto che dipinge, come autodidatta, le abbiamo dato del materiale per disegnare. Aveva dimenticato il suo nella fuga: “non avrei mai pensato di potermelo scordare”. Ha trovato sollievo in questa attività ci ha raccontato.
“Questa mattina mi sono sentita già meglio prima di fare il colloquio perché sapevo che dovevo prepararmi, che avevo un impegno, ed era un mese che non succedeva: poter dire al mio ragazzo di non chiamarmi per le successive 2 ore, perché impegnata, è stato un po’ recuperare quella che ero prima, ritrovare me stessa e riconoscermi”, ci ha raccontati l’ultima volta che l’abbiamo vista.
L’importanza del racconto
“Offriamo lo spazio per accogliere il racconto di quello che è accaduto alla persona e alla sua famiglia”, prosegue Giovanna. “Spesso ci mostrano le foto dei loro figli, della casa, degli animali da compagnia… avviando così il processo di ricostruzione della continuità temporale interrotta dalla guerra, legando assieme quel ‘prima’ e quel ‘dopo’. Questo significa avviare i processi di ristrutturazione della propria identità, la continuità temporale, e dunque sostenere le proprie risorse e capacità.
Ci sono immagini ricorrenti nei racconti dei profughi: il saluto ai familiari, agli uomini che restano per combattere, è frequentemente accompagnato dal il senso di colpa per ‘essersi messi in salvo mentre gli altri sono rimasti’, o dall’accusa di ‘non essere patrioti’, di ‘non restare per aiutare a costruire le munizioni o cucinare per i soldati’.