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“I nostri corpi sono mappe di dolore”

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Le montagne rocciose che circondano Sulaimaniya sono coperte, la pioggia batte sull’uscio delle case, sui portoni delle abitazioni e sul tetto del Centro.

Dal laboratorio di sartoria, Samad ci raggiunge muovendosi cauto sulle sue protesi. Ha perso le gambe e l’occhio sinistro quando era ancora un bambino.

“Mi ricordo che quel giorno avevamo appena portato le pecore al pascolo. Quando l’ordigno è esploso, mi trovavo sui pendii di un monte, a circa 500 metri dal villaggio. Con me c’erano anche due amici: uno è morto sul colpo, l’altro è rimasto cieco. La mina era nascosta nel terreno, non l’avevamo vista.”

I miei genitori, dopo avermi soccorso, mi hanno portato qui. E da qui è come – se in un certo senso – non me ne fossi mai andato.

Mentre ci racconta la sua storia, il profumo del chai, thè tipico locale, riempie i corridoi e anche le attese.

“Cicatrici che corrono sulla schiena, sulle braccia, sulle gambe. I nostri corpi sono mappe di dolore. – ci dice Samad. Insieme a EMERGENCY, sono tornato lentamente a camminare, a lavorare, e guardare il futuro con uno sguardo diverso. In questo laboratorio ho imparato a cucire. Nelle stanze di questo Centro ho ripreso a vivere. Abbiamo ripreso a vivere – sottolinea, mentre indica i suoi colleghi ed ex-pazienti.
La bellezza di questo luogo è sapere che ogni oggetto che vedi, dalle tende alle scarpe, è stato prodotto con le nostre mani.”

Un ciclo continuo di autogestione e pazienza. Alternati, come il movimento dell’ago e del filo nel tessuto, gli esercizi di riabilitazione insieme al nostro staff di fisioterapisti, il gesto di un martello su un pezzo di legno, quello dei passi cauti di Samad.

“Alhamdulillah”, esce in coro dalla bocca dei colleghi di Samad.
“Grazie a Dio” siamo qui, ancora vivi.

La testimonianza di Samad è stata documentata dal fotoreporter Matthias Canapini.
Le foto sono state realizzate da Alessandro Annunziata. 

La guerra non è ancora finita.

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