Fuori da qui, la pace, quando arriverà?
“Era il 1988 quando Saddam bombardò Halabja, la città in cui vivevo.
Insieme ai miei genitori restammo barricati in un rifugio, con la speranza che quegli aerei sopra le nostre teste smettessero di sganciare bombe. Dopo tre giorni, non sentendo più rumori, uscimmo. Credevamo che fosse finalmente tutto finito. In realtà le bombe continuavano a cadere, anche se noi non ce ne eravamo accorti, perché erano diverse dalle altre. Erano silenziose e non esplodevano a terra: erano armi chimiche.
Rimanemmo fermi per ore fuori dalle nostre case poi, una volta arrivato il buio, fuggimmo sulle montagne. Fortunatamente, il vento cambiò direzione in quei momenti e i gas ci lasciarono scampo. Accanto a noi abitava un’altra famiglia con dieci figli: quel gas li aveva uccisi tutti.
I primi tempi, dopo il bombardamento, non riuscivo a ingerire nemmeno il pane secco: probabilmente la mia trachea aveva sviluppato un’allergia a quelle sostanze tossiche. È rimasta danneggiata per anni, solo di recente ha ripreso a funzionare bene. Insieme ai miei fratelli avevo trovato rifugio da alcuni parenti; man mano che passavano i giorni, sentivamo sempre di più la fame. Così abbiamo raggiunto Hawar, un villaggio della nostra provincia, per cercare qualche provvista… ma era tutto contaminato. Intanto i nostri genitori si erano spostati a Sulaimaniya – nel Kurdistan iracheno – perché mio padre doveva fare un controllo al cuore. Con loro ci siamo potuti riabbracciare solo dopo diversi mesi: temevano addirittura che fossi morto.
Intanto, mentre quella prima guerra era terminata, un’altra stava cominciando a distruggere di nuovo tutto.
Lavoro nel Centro di riabilitazione e reintegrazione sociale di EMERGENCY a Sulaimaniya da 16 anni: oggi sono il responsabile di tutto il reparto della produzione delle protesi per i pazienti. Il bello del mio lavoro è che qui non esiste nessuna differenza: curdi, arabi, siriani, iracheni… tutti vengono curati allo stesso modo. Non facciamo discriminazioni, non escludiamo nessuno. Io stesso ho visto e vissuto la guerra sulla mia pelle, so cosa significa essere aiutato e aiutare chi ha sofferto come me.
Ricordo ancora quando uno dei nostri pazienti mi ha raccontato un giorno di aver perso la gamba combattendo contro i curdi. Mentre raccontava aveva solo me di fronte: un infermiere , ma anche un curdo, che in quel momento si stava occupando di lui, della sua salute e del suo futuro. Saremmo stati nemici se fossimo stati al fronte, in questo Centro non lo siamo.
Là fuori ci sono persone che non avrebbero nessuna possibilità di ricevere protesi se i nostri servizi non fossero completamente gratuiti. Per colpa della guerra, continuerebbero a vivere senza braccia, o senza gambe. Noi siamo qui per tutti loro.
Da oltre 20 anni – tra le mura di questo Centro – le persone possono curarsi, mangiare, dormire, vivere in pace. Ma fuori da qui, la pace, quando arriverà?
— Shadman, da Sulaimaniya