“Come racconterei a mio figlio quello che vedo?”
Certe volte sembra il rumore di una porta che sbatte. Però sbatte strana, tant’è che spesso ci guardiamo tutti in silenzio per qualche secondo. Altre volte cascano proprio i calcinacci e i vetri. E lì non ci sono dubbi. Oppure, come ieri, non senti proprio niente. Niente vibrazioni dei vetri, niente botta sorda. Ma quello che viene dopo non cambia.
“Mass casualty”, le chiamano in inglese. Maxi emergenze in italiano. Mia madre, che è una donna semplice, direbbe che “è un macello”.
Mercoledì scorso un’esplosione in città, ne sono arrivati più di 40, tutti insieme. No, non mi ricordo bene i numeri, gli amanti della statistica rimarranno delusi. Qualcuno è morto subito. Qualcuno, dopo un po’. Qualcuno il giorno dopo, non molti mi pare. La maggior parte è ancora in ospedale.
Domenica pomeriggio altra esplosione. Altra mass casualty, altro macello, per le persone normali. Un’autobomba, dicono.
Una fila di sacchi bianchi al cancello, il pronto soccorso che diventa un mattatoio, decine di persone corrono da una parte all’altra, scivolano sul sangue, schivano barelle. La sala operatoria chiama via radio chiedendo altre sacche di sangue. Nei reparti i ragazzi girano con le bende in mano cercando di tamponare quelli che aspettano di essere operati.
Giusto il tempo di riprendersi dalla prima, di ragionare sui numeri, sui pazienti, sul da farsi. Giusto il tempo di far riprendere i ragazzi locali dalla fatica dei turni in più, dalle ore in più passate nei reparti a gestire l’afflusso, dal rifornimento dei materiali, dalla distribuzione dei pazienti per trovare un posto adeguato per tutti. E giù di nuovo. La testa ancora sott’acqua. In apnea.
Non so come ha fatto Ljubica, la Medical coordinator, a trovare posto per tutti, ma l’ha trovato. Adesso sono le tre di notte, andiamo a casa, e il momento per farsi qualche domanda. Su tutte me ne viene una, stranamente: come racconterei a mio figlio quello che vedo?
Gli direi che il rumore della guerra non sono le urla o i pianti. Il rumore della guerra è quello di un ragazzo di 22 anni, ieri sera, con metà intestino di fuori. È un rantolo, un gorgoglio debole dalla bocca che esce a malapena. È il suono metallico di una scheggia di ferro arrugginita, grossa come una chiave inglese, che butti in terra dopo averla tolto da una gamba.
Gli direi che lo sguardo della guerra è quello captato con la coda dell’occhio, di un uomo su una barella che viene giudicato “non salvabile”, e sta lì, in un angolo del pronto soccorso da solo, col cervello che gli cola sul lenzuolo, che respira appena. È l’unico che non ha nessuno intorno, non ha possibilità di salvarsi, non ci si può dedicar a lui perché toglieremmo assistenza a chi di speranze ne ha. Però la coda dell’occhio ti dice che un po’ si muove, un po’ respira.
Ed è lì.
Ed è da solo.
E la coda dell’occhio non si stacca da lui.
Gli direi che la puzza della guerra sa di sangue bruciato, di polvere da sparo. E di merda. Perché quella c’è nei visceri.
Gli direi che nella vita ne sentirà tante su questo tema: a scuola, tra gli amici, in parrocchia, in TV e sui social. Gli direi che è bene ascoltarle tutte le opinioni, che è legittimo che tutti le esprimano, anche quando sembrano terribili. Ma gli direi che c’è qualcosa che non solo è legittimo, a volte è doveroso: il silenzio.
– Roberto, infermiere a Lashkar-gah, Afghanistan