“Certi abbracci mi fanno letteralmente vibrare”
Dove trovo tutta questa energia? Io lo chiamo “arcobaleno di culture”: diverse geografie, diverse personalità, tutte qui per garantire un futuro alla popolazione che gravita qui intorno. È sia un ospedale sia una scuola questo Centro: si insegnano le tecniche, si migliorano le professionalità, si fa formazione ai colleghi afgani. Si spiega che qui non solo curiamo le persone, ci prendiamo cura di loro.
Il flusso delle attività ci impegna tanto, ci travolge… Ci stimola. A trasmettere energia positiva a tutto lo staff, a praticare i sentimenti fondamentali della vita: allegria, empatia, ma anche consapevolezza, capacità di intuire la sofferenza degli altri, Ecco cosa fa. Ci spinge a portare un sorriso per rendere un ambiente di dolore – come un ospedale – il più confortevole e positivo possibile.
Quando poi i sentimenti si trasformano in risultati professionali, capisco che quell’energia positiva ha un senso ancora più preciso. Succede quando a fare la differenza c’è la cosa che ho imparato, più di tutte le altre, in questi anni in missione: l’umiltà.
Sento l’avversione, l’intolleranza, il razzismo, la frustrazione dilagare sempre di più tra le persone. Ma qui, in Panshir, ho avuto la conferma che solo l’umiltà contribuisce a creare qualcosa di bello. E solo per una ragione semplicissima: l’umiltà ci riporta al nostro stato primario, quello di esseri umani, come anche la diversità, che dà ricchezza.
Volete sapere come sono arrivato qui? Gli anni che mi legano a questa associazione sono quasi sei, ma è come se sentissi di lavorare qui da sempre. Cominciamo prima di tutto da una cosa: sono orgogliosamente siciliano. Amo la storia della Magna Grecia: siamo stati la tomba di Eschilo, la Repubblica di Platone, il sogno di Aristotele, la culla della mitologia omerica, con i ciclopi, il vento, i Fenici, gli Arabi, l’incontro di diverse culture… Amo la mia terra, anche con tutte le sue contraddizioni.
Sono cresciuto nella zona delle Madonie, in un piccolo paese dell’entroterra, in provincia di Palermo. E proprio a Palermo, una volta finite le scuole superiori, mi sono iscritto alla facoltà di Lettere e Filosofia. Erano gli inizi degli anni Novanta…in quegli anni nasceva anche EMERGENCY.
Io, intanto, cominciavo a collaborare con una piccola associazione siciliana. Prima destinazione: Chiapas, in Messico, durante la rivoluzione zapatista. È lì che ho conosciuto Stefania, la donna di cui sono innamorato, e dove ho scoperto che anche la medicina, in situazioni di crisi, può “fare resistenza”.
Ne ero così convinto che una volta tornato in Sicilia ho deciso di iscrivermi a Medicina. Poi sono ripartito per il Messico, per la specialità in pediatria. In America Latina io e Stefania abbiamo trascorso 17 anni della nostra vita. Lì è nata anche nostra figlia, Sofia.
A chi mi chiede cosa vuol dire vivere in missione con la propria famiglia rispondo che è come vivere una “missione dentro la missione”. La più straordinaria del mondo, perché la stai condividendo con le persone più importanti della tua vita.
Poi sono arrivati il 2014 e l’epidemia di Ebola in Sierre Leone. Io e Stefania volevamo impegnarci in qualcosa di concreto. Siamo partiti, di nuovo, questa volta con EMERGENCY. Prima io come pediatra, poi lei come logista di farmacia. Davanti a noi, uno dei virus più letali mai registrati. Un’epidemia terribile e una sfida enorme. Ci chiamavano “Ebola fighters”, i “combattenti di Ebola”. Durante l’emergenza noi non ce ne siamo mai andati.
In quel periodo visitammo migliaia di bambini, alcuni colpiti da grave malnutrizione. Le loro storie mi sembra di ricordarle tutte, ma ce n’è una in particolare che mi colpì. Lo chiamavamo tutti “il poeta” ma il suo vero nome era Mohamed. Aveva 11 anni e, quando lo abbiamo visto per la prima volta in Pronto soccorso, pesava meno di 20 chili. Uno scheletro che camminava. Sdraiato sulla barella, appena ci vide disse: “Non date la colpa a mia madre per come sono, lei ha fatto ogni sforzo.” Era così piccolo… ma così saggio e consapevole. Era un bambino, ma parlava del dolore in maniera così grande. Morì una domenica mattina, con il sorriso sulle labbra. Non me lo dimenticherò mai.
Oggi sono in Afghanistan, ad Anabah, dove seguiamo i bambini in ogni fase della cura. Lo facciamo perché la vulnerabilità di ognuno è la vulnerabilità di tutta la società, e va protetta.
Quando muore un bambino, si disintegra la possibilità di una famiglia. Si mutila un pezzo di futuro. E quando muore una madre, si disintegra il nucleo della famiglia. Perdiamo tutti.
Cerco di trasmettere questo ai nostri colleghi, agli studenti che vogliono imparare… a tutti. Dall’infermiere in sala al cleaner che si occupa di tenere pulito ogni spazio dell’ospedale. Lo faccio cercando di superare le barriere, le prime timidezze e quando incrocio lo sguardo delle madri. In quel momento capisco di avercela fatta. Lo capisco quando anche i nuovi pazienti e i loro familiari cominciano a chiamarmi nel modo in cui mi conoscono qui: Pierpaolo, “il dottore magro”.
Certi abbracci che ricevo mi fanno letteralmente vibrare.
Ogni tanto, quando con Stefania ricordiamo i nostri anni in giro per il mondo, sapete cosa mi dice Sofia? “Papà, voglio andare in missione”.
Ma questa, davvero è un’altra storia.
Ora vi devo salutare,
Vi voglio bene!
— Pierpaolo, il vostro “dottore magro”