Cerchiamo di vedere il bicchiere sempre mezzo pieno
Lei 5 anni, lui 4. Fazlia e Wasia sono qui, di fronte a me. Vicini di letto.
Provengono da Nadali e Marja, due distretti diversi della provincia dell’Helmand, ma sono arrivati nel nostro ospedale per lo stesso “incidente”. Una pallottola. Una sola per ciascuno.
Quella che ha colpito Fazlia le ha attraversato l’addome. Per fortuna non ha colpito la colonna. Le abbiamo riparato l’intestino, sperando che questa sia l’ultima pallottola che debba incontrare nella sua vita.
Quella che ha incontrato Wasia, il più piccolo, è stata più devastante. Gli ha trapassato il cranio. Entrata e uscita. Un secondo, se non di meno. All’arrivo in ospedale non muoveva più un lato del corpo. Ma respirava, reagiva al dolore. Craniotomia. Apri, lavi, pulisci, fermi l’emorragia. Lo chiamiamo “Damage control”, “tenere sotto controllo il danno”. Aspettare, per riparare dopo.
Penso che i bambini abbiano una forza per riprendersi quasi incredibile. Noi qui cerchiamo di vedere il bicchiere sempre mezzo pieno. Anche in questa stanza – ICU, che sta per Intensive Care Unit – dove monitoriamo e attendiamo il risveglio dei nostri pazienti dopo gli interventi.
Due pallottole, distanti, ma pur sempre uguali.
Penso a tutte le volte che in tv o alla radio sento dire che “non sono stati colpiti civili”.
Io sono certa solo di una cosa, davanti ai letti troppo grandi che ospitano Fazlia e Wasia: non esiste guerra senza vittime civili.
— Sarah, infermiera di EMERGENCY, dal Centro chirurgico per vittime di guerra di Lashkar-gah, Afghanistan