Afghanistan: l’intervento di Rossella Miccio, Presidente di EMERGENCY, in un’audizione al Senato
Martedì 5 ottobre 2021 la Presidente di EMERGENCY Rossella Miccio ha partecipato all’audizione delle Commissioni riunite Affari Esteri e Difesa del Senato in merito all’intervento internazionale in Afghanistan.
Di seguito, riportiamo il suo intervento integrale:
Gent.mi Presidenti Pinotti e Petrocelli, Senatrici e Senatori,
vi ringrazio per l’invito all’indagine conoscitiva su “La partecipazione italiana all’intervento internazionale in Afghanistan”.
EMERGENCY è presente in Afghanistan dal 1999, prima dell’inizio della guerra al terrorismo, quando il Paese, la sua storia e la situazione drammatica in cui versava la popolazione erano pressoché sconosciute all’opinione pubblica occidentale.
Da allora siamo sempre rimasti al fianco del popolo afgano, martoriato da oltre 40 anni di guerre. Un popolo che aveva sicuramente iniziato a sperare per un futuro di pace nel 2002, ma che si è poi trovato a fare di nuovo i conti con l’amara constatazione che, nonostante gli attori fossero cambiati, la realtà quotidiana non accennava a migliorare. Tutt’altro. Un popolo che negli ultimi due mesi si è ritrovato da solo nella disperazione figlia della guerra, tradito da un’elite politica locale che ha dimostrato incapacità e disinteresse per le sorti del Paese e da una comunità occidentale che non ha saputo mantenere le promesse fatte nei precedenti 20 anni e si è dileguata ancor prima che andassero via i propri militari.
EMERGENCY ha iniziato la propria attività in Afghanistan aprendo un Centro chirurgico nella valle del Panjshir, un luogo ora noto a tutti per la resistenza di Ahmad Sha Massud e dei suoi uomini. Volevamo offrire cure gratuite alle vittime della guerra tra i Talebani e l’Alleanza del Nord e delle mine antiuomo disseminate durante l’occupazione sovietica. Nel corso degli anni ci siamo resi conto che le vittime del conflitto non erano soltanto i feriti, ma la comunità nella sua interezza, con i più fragili in cima alla lista.
Nel 2019 erano 60 su 1.000 i bambini che perdevano la vita entro i cinque anni di età, in Italia sono 3. La mortalità neonatale è la sesta peggiore al mondo con 36 neonati deceduti su 1.000i. Anche la mortalità materna ha raggiunto record drammatici, tanto che già nel 2002 l’Afghanistan fu definito dall’UNICEF come il Paese più pericoloso dove diventare madre.
Per questo abbiamo investito per contribuire a offrire un futuro migliore alle comunità locali, aprendo anche un Centro pediatrico e un Centro di maternità accanto al Centro
chirurgico del Panjshir.
Nell’aprile del 2001, nella Kabul ancora in mano ai Talebani, abbiamo aperto il secondo Centro chirurgico dedicato alle vittime di guerra, e nel 2004, il Centro chirurgico di Lashkar-gah, nella provincia pashtun di Helmand, a sud del Paese.
Tutti i nostri ospedali sono collegati a una rete di 44 posti di primo soccorso e cliniche, presenti in 30 distretti, per garantire la stabilizzazione e il rapido riferimento dei pazienti che necessitano di cure urgenti. Gli ospedali e le cliniche di EMERGENCY sono stati un punto d’osservazione privilegiato durante questi 22 anni. Da lì abbiamo potuto toccare con mano l’evoluzione del conflitto, o meglio l’involuzione.
UNAMA (United Nations Assistance Mission in Afghanistan), la missione dell’Onu a Kabul, ha iniziato a raccogliere dati sulle vittime civili solo nel 2009. Da allora al 30 giugno 2021, sono 116.076 le vittime totali: 40.218 i civili uccisi, 75.858 i feriti.
I dati dei nostri ospedali possono essere letti insieme a quelli di UNAMA, anche se non sono sovrapponibili. EMERGENCY, infatti, come organizzazione umanitaria, include nelle statistiche tutti i feriti di guerra che arrivano nei propri ospedali, senza distinzione, nel rispetto dei principi di neutralità, imparzialità e umanità. Ma 9 volte su 10 chi varca la soglia delle nostre strutture è un civile. Il confronto con i dati di UNAMA rivela una tendenza significativa e comune: il costante aumento dei feriti e della violenza. Nel 2001 i nostri ospedali hanno curato 686 vittime di guerra, nel 2020 hanno raggiunto 5.021 feriti, un aumento del 632%. L’anno peggiore è stato il 2018 con 7.106 vittime di guerra.
Il 40% dei feriti di guerra curati nei nostri ospedali sono donne e bambini. L’apice si è raggiunto sempre nel 2018 con 1.887 bambini feriti di guerra curati nei nostri ospedali. 5 ogni giorno.
In un recente report sulle nostre attività a tutela della salute materna e neonatale in Panjshir, il 40% delle pazienti intervistate ha dichiarato che la sicurezza rappresentava la principale barriera di accesso alle cure. Ulteriore conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che l’impatto della guerra sui civili va ben oltre i morti e i feriti direttamente collegabili ai combattimenti.
Le nostre cliniche sul territorio ci hanno inoltre permesso di conoscere le zone più remote del Paese. La rete ha seguito per quanto possibile la mappa del conflitto, molto dinamica in Afghanistan, con l’obiettivo di rendere le cure accessibili e sicure alle popolazioni più marginalizzate e maggiormente colpite dalla violenza. Oltre 28.000 pazienti, uno su tre tra
quelli curati negli ospedali di Kabul e Lashkargah, provenivano dalla nostra rete di FAP.
Nei passati 20 anni, i nostri 3 centri prevedevano di trasformarsi in ospedali specializzati nella cura di lesioni da trauma civile ed invece hanno dovuto impegnarsi senza sosta nel trattamento di pazienti con ferite di guerra sempre più complesse. La cause sono legate all’aumento dei bombardamenti aerei, all’uso indiscriminato di ordigni esplosivi improvvisati ed allo spostamento della linea del fronte verso i centri urbani piuttosto che nelle zone rurali. Di conseguenza, i nostri specialisti afgani, formati secondo standard internazionali, hanno dovuto acquisire nuove competenze per gestire lesioni multiple devastanti.
AOAV (Action on Armed Violence), che dal 2011 monitora il numero delle vittime e le caratteristiche degli incidenti causati da ordigni esplosivi in tutto il mondo, ha classificato l’Afghanistan tra i primi cinque Paesi maggiormente colpiti dalle armi esplosive.
Questo triste record era mantenuto anche prima che iniziasse il monitoraggio di AOAV, un record a cui hanno contribuito anche le truppe afgane e internazionali. L’Afghanistan Rights Monitor nel 2010 riportava infatti che il 12% dei decessi di civili erano attribuibili alle forze afgane e il 21% alle forze statunitensi o NATO. I cosiddetti “danni collaterali”. Prima provocati dai bombardamenti aerei, oggi dai droni.
Nel 2010, a Lashkar-gah ne abbiamo visti diversi di “danni collaterali”. A febbraio era stata lanciata l’operazione Moshtarak, termine dari che significa “insieme”. Hanno partecipato truppe afgane, statunitensi, inglesi e canadesi per riprendere il controllo della città di Marja. L’obiettivo era colpire le roccaforti dei talebani, ma i civili non sono stati risparmiati. Dal solo villaggio di Marja, in 15 giorni abbiamo ricevuto 45 feriti, per la maggior parte da proiettile. Colpo singolo. Per la maggior parte civili, bambini innanzitutto. E questi sono stati i fortunati, quelli che sono riusciti a raggiungere il nostro ospedale. Moltissimi non ce l’hanno fatta perché i militari, che avevano accerchiato la città, impedivano l’evacuazione delle vittime.
Secondo fonti ufficiali dell’esercito americano, nel 2019 è stato sganciato il più alto numero di bombe da quando, nel 2006, si era iniziato a tenerne traccia: 7423, 8 volte quelle sganciate nel 2015. Il cambiamento delle tattiche di conflitto ha fatto registrare anche un aumento di mass casualty, eventi straordinari in cui la struttura ospedaliera deve essere preparata a far fronte ad un afflusso massiccio di pazienti in un breve lasso di tempo. Il 2018 è stato l’anno con il più alto numero di mass casualty nei nostri ospedali. Nei 2 anni successivi a fronte di una diminuzione del numero di feriti coinvolti vi è stata una drammatica escalation della brutalità degli attacchi contro target vulnerabili e molto visibili con l’obbiettivo di catturare l’attenzione mediatica.
Questi attacchi hanno inoltre messo in evidenza, a partire dal 2015, l’ingresso sulla scena del conflitto afgano di Daesh, oggi noto come ISISK, in aperta competizione con il governo afgano, ma anche e soprattutto con le tradizionali forze di opposizione talebane. Ad inizio 2021 si registrava, nella sola capitale, una media di 3 attentati al giorno, spesso non rivendicati dai Talebani. Nei primi cinque mesi di quest’anno, il nostro Centro chirurgico a Kabul aveva già registrato 13 episodi di mass casualty, con 145 pazienti curati.
Più recentemente, il cancello del nostro ospedale è diventato tristemente celebre sui media a seguito dell’attentato, rivendicato proprio dall’ISISK, all’aeroporto di Kabul del 26 agosto scorso, quando abbiamo ricevuto più di 60 vittime. 16 erano già morte all’arrivo a causa della gravità delle ferite. I morti totali sono stati più di 180.
Con l’aumento delle vittime e della violenza di anno in anno, garantire la sicurezza delle nostre strutture, del nostro staff e dei nostri pazienti è stato sempre più difficile.
Nel 2010, il Centro chirurgico di Lashkar-gah è stato chiuso a seguito dell’arresto di tre membri dello staff internazionale da parte dell’esercito afgano e delle forze della coalizione internazionale con l’accusa di voler attentare alla vita del Governatore dell’Helmand; l’accusa è stata ritirata dopo nove giorni, ma per poter riaprire l’ospedale è stato necessario intraprendere lunghe trattative che hanno comportato l’inattività della struttura per tre mesi.
Nel 2014, un’autista di un’ambulanza di EMERGENCY è stato raggiunto da colpi di arma da fuoco ed è morto. Stava svolgendo il suo lavoro. Si stava recando al nostro Posto di primo soccorso di Tagab per aiutare a trasferire a Kabul i numerosi feriti dei violenti combattimenti che colpivano il distretto.
Nel 2016, abbiamo dovuto chiudere il Posto di primo soccorso di Sangin, in Helmand, perché il distretto era diventato teatro di scontri particolarmente violenti. Siamo riusciti a riaprirlo solo 2 anni e mezzo dopo, in una diversa zona della città.
Nel 2019, due colleghi afgani sono stati uccisi da un attacco aereo, o più probabilmente un drone, mentre percorrevano in moto la strada verso Ghazni. I loro corpi, dilaniati dall’esplosione, sono stati riconosciuti solo grazie al tesserino di EMERGENCY che portavano con sé.
I combattenti di tutte le parti in conflitto, nazionali e internazionali, hanno varie volte fatto irruzione nelle nostre cliniche, minacciando, derubando e talvolta sequestrando il nostro staff, chiedendo i nomi e i dettagli sui pazienti trattati. In aperta violazione della neutralità e imparzialità delle strutture sanitarie.
E questi sono solo alcuni esempi, quelli più drammatici.
Il nostro biglietto da visita è sempre stata la nostra neutralità, unita alla professionalità, che ci ha permesso di consolidare la nostra reputazione e il rapporto di fiducia con le comunità locali. Abbiamo curato 7 milioni e mezzo di afgani in 22 anni, senza distinzioni. Le nostre strutture garantiscono potenziale accesso a cure gratuite e di alta qualità a 10 milioni di persone.
In 22 anni di lavoro in Afghanistan, EMERGENCY ha speso circa 133 milioni di euro raccolti da donatori privati, istituzionali e, negli ultimi anni, anche dal governo afgano.
Con questa cifra, oltre a curare milioni di persone, abbiamo formato nuovi medici specialisti e personale sanitario, dando lavoro a circa 2.500 afgani e afgane. Praticamente l’equivalente di aver tenuto un piccolo contingente di soldati nel Paese per un anno. Come sempre, si tratta di scegliere che cosa si vuole fare. Come sempre, si tratta di scegliere da che parte stare.
Offrire posti di lavoro e formazione professionale sono un elemento fondamentale per la ricostruzione di un Paese devastato dai conflitti. Significa creare sviluppo, restituire dignità e speranza, migliorare i servizi e porre le basi per un tessuto sociale più sano.
Nei primi 10-15 anni, la nostra organizzazione ha enfatizzato la cosiddetta formazione “on the job”. Lo staff internazionale qualificato si affiancava con continuità al personale nazionale nel lavoro in corsia, in sala operatoria, in pronto soccorso, per formare attraverso l’esempio e la collaborazione diretta sul paziente i colleghi nazionali, che molto spesso non avevano ricevuto un’istruzione formale. Un accordo con le autorità sanitarie, sancito sin dai primissimi anni di lavoro nel Paese, prevedeva che tutti coloro che avessero lavorato continuativamente in un nostro ospedale per almeno due anni potessero partecipare all’esame di stato per conseguire il titolo di infermiere, anche senza aver frequentato un corso ufficiale.
Nel 2012, i nostri ospedali sono stati riconosciuti dal Ministero della Sanità come centri di formazione specialistica post laurea in chirurgia e ginecologia. Nel 2015 si è aggiunto il riconoscimento per la specialistica in pediatria. In otto anni, abbiamo formato oltre 60 specializzandi. Il programma di specializzazione in ginecologia è rivolto esclusivamente alle donne. Di questo siamo molto fieri perché praticare la parità di genere in Afghanistan, anche in territori non sotto il controllo talebano, non è mai stato né facile né scontato. Il nostro Centro di maternità in Pranshir, è stata la prima struttura gratuita dedicata alle donne nell’intera provincia, ma già pochi anni dopo l’avvio delle attività cliniche è diventato un riferimento anche per le provincie limitrofe.
Il report “Una rivoluzione silenziosa”, pubblicato da EMERGENCY nel 2019, evidenzia che il 58% del personale, tutto femminile, del nostro Centro di maternità del Panjshir è costituito da donne che sono state le prime a lavorare nelle loro famiglie, e il 53% ha affermato di essere la persona che guadagna di più nella famiglia. Le operatrici hanno dichiarato di aver acquisito uno status sociale più rispettato nella loro comunità e un ruolo decisivo nei processi decisionali all’interno della casa, e spesso anche fuori. La loro presenza ha inoltre contribuito a sensibilizzare sulla salute materna altre donne del proprio villaggio o di aree confinanti, e anche i propri mariti e familiari maschi.
Oggi queste donne continuano a lavorare accanto a noi e a fornire cure salvavita alle mamme afgane. Questo non è cambiato e siamo determinati affinché non cambi anche in futuro.
Dal 2012 ci siamo impegnati per garantire la sostenibilità economica dei nostri progetti, diversificando le entrate. Sono così aumentati i finanziamenti da parte dei donatori internazionali, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA) e la Direzione generale per la protezione civile e le operazioni di aiuto umanitario europee (ECHO), che oggi rappresentano circa il 30% del budget dei nostri progetti nel Paese.
Dallo stesso anno, il governo afgano ha contribuito prima con 1,5, poi con 2,5 milioni di dollari al funzionamento delle attività di EMERGENCY nella Valle del Panjshir, dove il nostro ospedale funge da ospedale provinciale e le nostre cliniche garantiscono una rete capillare per la medicina di base. Questa disponibilità al co-finanziamento da parte dei governi afgani che si sono succeduti negli anni non ha valore solo per il contributo economico, è soprattutto conferma di quanto il lavoro di EMERGENCY si sia integrato nel tessuto socio-sanitario del Paese.
Dal 2001 ad oggi non abbiamo ricevuto fondi dalla Cooperazione italiana né da altre cooperazioni di Paesi che avevano una presenza militare in Afghanistan. La scelta ci è sembrata necessaria e coerente con la assoluta contrarietà al ricorso alla guerra che da sempre è stata alla base del lavoro di EMERGENCY. Solo nel 2000, abbiamo ricevuto un contributo del Ministero degli Esteri attraverso i canali multilaterali delle Nazioni Unite finalizzato alla costruzione dell’ospedale di Kabul.
Con 133 milioni di euro abbiamo investito per la pace nel Paese. Nello stesso arco temporale gli Stati Uniti e l’Italia spendevano rispettivamente 2 trilioni di dollari e 8,7 miliardi di euro in costi per la guerra. Una guerra che è stata la più lunga della nostra storia repubblicana.
In questi vent’anni, nonostante gli investimenti da dodici zeri, il terrorismo non è stato battuto, ma si è adattato, nel Paese e nel resto del mondo. Ci sono quasi quattro volte più militanti islamici oggi di quanti ce ne fossero l’11 settembre 2001 e restano inoltre attivi quasi 100 gruppi estremisti islamici iii. La presenza dell’ISIS Khorasan, che si oppone apertamente ai talebani, dovrebbe far suonare importanti campanelli di allarme.
Nel Paese sono aumentate progressivamente insicurezza e corruzione. Il tasso di percezione della corruzione monitorato da Transparency International vede, infatti, l’Afghanistan al 165° posto su 179. Contestualmente sono cresciuti la dipendenza dagli aiuti internazionali, nonché la criminalità, la prostituzione e il traffico di droga. Proprio la lotta a questo “degrado sociale” è stato uno degli elementi che ha permesso ai Talebani di mantenere in buona parte del paese il supporto delle comunità rurali, soprattutto di etnia Pashtun.
Prima dell’intervento americano “Enduring Freedom” nel 2001, la produzione di oppio era ai minimi storici perché i talebani ne vietavano la coltivazione. Dopo la loro sconfitta, però, la necessità di finanziare le operazioni di guerriglia hanno innescato il rifiorire del commercio. Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per le droghe e il crimine, le coltivazioni di oppio afgane rappresentano l’80% della produzione globale, diventando una delle principali fonti di reddito per la popolazione locale. Il 95% dell’eroina prodotta arriva in Europa, ma è cresciuto anche a dismisura il numero dei tossicodipendenti nel Paese.
Esportare la democrazia con le armi ha porta to ai risultati che oggi abbiamo davanti agli occhi. Come diceva il nostro fondatore, il dottor Gino Strada, “Ogni volta, nei vari conflitti nell’ambito dei quali abbiamo lavorato, indipendentemente da chi combattesse contro chi e per quale ragione, il risultato era sempre lo stesso: la guerra non significava altro che l’uccisione di civili, morte, distruzione.” È per questo che non smetteremo mai di ribadire quello che Albert Einstein aveva già intuito nel 1932, e cioè che “la guerra non si può umanizzare, si può solo abolire”.
EMERGENCY non ha lasciato e non lascerà l’Afghanistan. Proseguiremo a impegnarci per garantire cure gratuite e di qualità a chi ne ha bisogno, senza discriminazioni, e a formare medici e infermieri specializzati. Ora più che mai è necessario non disattendere le aspettative degli afgani, che la comunità internazionale ha nutrito per vent’anni e ha poi spezzato.
Investire nella salute deve essere una priorità anche per dare un futuro alla popolazione afgana, ricostruendo servizi essenziali e offrendo posti di lavoro, anche alle donne. La sanità è infatti uno dei pochi settori per cui il nuovo governo ha espressamente concesso la partecipazione attiva di personale femminile. Sarà fondamentale preservare questo ambito di tutela dei diritti di chiunque ad essere curato e delle persone di qualunque genere ad avere accesso alla formazione per costruire la propria indipendenza e dignità professionale.
La nostra presenza continuerà a fornire un punto di osservazione sull’evoluzione della situazione nel Paese, permettendoci di monitorare e testimoniare eventuali violazioni del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani nell’ambito delle nostre operazioni.
La situazione nel Paese è incerta e vicina al collasso economico. È urgente ripristinare la completa funzionalità dei conti bancari afgani, permettendo prelievi e trasferimenti senza restrizioni. I nostri dipendenti hanno lavorato per settimane senza ricevere uno stipendio per l’impossibilità di trasferire fondi dall’Italia o prelevare senza limitazioni dalle banche afgane. Queste difficoltà si ripercuotono sul pagamento dei fornitori locali che svolgono un ruolo cruciale nell’approvvigionamento dei nostri ospedali; le forniture più critiche sono in particolare il carburante per i generatori e le ambulanze, il cibo per staff e pazienti, medicinali e ossigeno.
I voli commerciali e quelli umanitari a cura delle Nazioni Unite sono stati solo parzialmente riattivati anche sulla capitale. I confini via terra sono aperti e le spedizioni di materiali essenziali per il mantenimento dell’aiuto umanitario stanno lentamente riprendendo via container e via cargo. Un nodo fondamentale sarà la ripresa delle attività degli uffici visti e doganali che regolino l’ingresso del personale umanitario e l’importazione dei materiali.
La credibilità che abbiamo costruito attraverso il nostro lavoro nei passati 22 anni ci ha permesso di mantenere aperto il canale del dialogo con tutti gli attori sul terreno nel rispetto delle diverse sensibilità culturali. Abbiamo incontrato le nuove autorità talebane ed in particolare i responsabili del Ministero della Sanità e abbiamo condiviso con loro il nostro approccio e ribadito l’importanza che il nostro staff, i nostri pazienti , le nostre strutture e le nostre ambulanze non diventino un obiettivo militare, nel rispetto imprescindibile dei principi di neutralità, imparzialità, indipendenza e umanità. Ad oggi non abbiamo registrato nessun tentativo di venir meno a questo impegno.
Facciamo appello a Voi e al Parlamento affinché assicuriate che la situazione in Afghanistan, che è stata sotto i riflettori nelle passate settimane, non venga dimenticata.
Il contesto politico tutt’altro che stabile e la crisi economica sono delle bombe ad orologeria
che potrebbero sfociare in una nuova guerra civile della quale potrebbero avvantaggiarsi forme di estremismo islamico più radicali rispetto ai Talebani e ancora estremamente attive in varie provincie.
E’ pertanto fondamentale garantire con urgenza protezione e assistenza umanitaria ai 39 milioni di afgani rimasti nel Paese, contribuendo quanto prima all’Appello urgente lanciato dalle Nazioni Unite per raggiungere 1,2 miliardi di dollari in aiuti umanitari e di cooperazione allo sviluppo.
Esortiamo l’adozione di ogni misura necessaria per inviare velocemente gli aiuti umanitari alla popolazione in stato di bisogno, lavorando per il ripristino dei trasferimenti bancari indispensabili per il supporto dei progetti di assistenza umanitaria già in corso e di quelli nuovi che saranno necessari.
Chiediamo che l’Italia si opponga a gran voce alla chiusura dei confini europei nel nome della sicurezza e del contenimento delle migrazioni, politiche fallimentari e miopi che hanno macchiato di sangue le nostre mani e i nostri confini, di terra e di mare.
Auspichiamo che la nostra classe politica abbia la lungimiranza di comprendere che l’esclusione di un impegno da parte dell’Europa nell’accoglienza degli afgani in fuga non impedirà l’arrivo di persone in difficoltà alle nostre frontiere. Non è accettabile essere impreparati e continuare a violare i più fondamentali diritti delle persone.
Esortiamo invece la promozione di ogni strumento disponibile, ivi inclusi meccanismi efficaci di trasferimento e ricollocamento, ad assicurare la protezione internazionale agli afgani in Europa, alle decine di migliaia che da anni bussano alle nostre porte scappando dalla guerra e a quelli che in questo frangente stanno lasciando il Paese, adottando come unico criterio il rispetto della dignità e dei diritti umani.
In conclusione, chiediamo di iniziare a costruire la pace attraverso la pratica dei diritti, non soltanto con le parole e tantomeno con le armi, nel rispetto del ripudio della guerra sancito dall’articolo 11 della nostra bellissima Costituzione che siamo tutti tenuti a rispettare.
Grazie per l’attenzione.
Rossella Miccio, Presidente di EMERGENCY