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Ombre e paradossi del “Decreto sicurezza”

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Il “Decreto sicurezza”: perchè?

Che cosa ci aspetteremmo da una legge che deriva da un decreto battezzato significativamente “Sicurezza” ?  (Il Decreto Legge 4 ottobre 2018 n. 113 convertito, con modificazioni, dalla Legge 1 dicembre 2018 n. 132 (in G.U. 03/12/2018, n. 281)

Che serva a difenderci dai pericoli, a evitare gravi danni, a consentirci il tranquillo svolgimento delle nostre attività, a tutelarci in caso di rischi di salute, come riporta un qualsiasi vocabolario.

Invece, il decreto, diventato legge a dicembre 2018, parla principalmente di migranti.
Un’associazione che non ha nessun fondamento, soprattutto in un Paese minacciato da diverse forme di “insicurezza”: dalle incertezze di un’economia in crisi al numero sempre crescente di violenze in famiglia, passando per le morti sul lavoro fino ad arrivare alla criminalità organizzata, che in maniera più o meno visibile spadroneggia in alcuni settori di attività economiche e su interi territori.
Eppure, il legame fra migranti e sicurezza suona logico in un tempo in cui lo straniero è stato trasformato nel pericolo numero uno. Il panico ha creato l’onda giusta per le classi politiche che in questi ultimi anni non hanno esitato a cavalcarla, con una comunanza di intenti e con una continuità che supera le divisioni fra fazioni e partiti.
Non ha suscitato troppo stupore il fatto che l’obiettivo dichiarato del Decreto sicurezza sia ridurre la presenza di cittadini stranieri sul territorio, contrastare “il possibile ricorso strumentale alla domanda di protezione internazionale”, che di fatto significa impedire ai migranti che arrivano nel nostro Paese in cerca di lavoro di utilizzare la richiesta di asilo politico come percorso di regolarizzazione.

Tuttavia, il motivo che costringe anche i migranti cosiddetti “economici” a provare la via della richiesta di asilo in Italia, è stato creato dalle scelte politiche precedenti. La nostra legislazione, infatti, oggi rende estremamente difficile, nella pratica quasi impossibile, l’ingresso regolare senza ricorrere alla richiesta di protezione internazionale.

Oggi gli stranieri residenti in Italia sono l’8 percento della popolazione totale (DATI ISTAT, 2018). I più presenti non sono africani, né musulmani e non arrivano via mare: sono i rumeni (cittadini UE) con poco più di un milione di presenze su 60 milioni di abitanti. I cittadini non comunitari residenti in Italia sono invece, complessivamente, poco meno di 4 milioni; tra questi, le comunità più numerose, provenienti da Marocco, Albania e Cina, sono presenti in Italia ormai da qualche decennio.
Per quanto riguarda i richiedenti asilo, i numeri sono diversi: si tratta di 335 mila persone nel biennio 2015-2017, circa un quarto rispetto al numero degli stranieri che hanno presentato domanda in Germania.
Non dimentichiamo, ovviamente, i cosiddetti “clandestini”, ovvero cittadini di paesi terzi che non hanno il permesso di soggiornare in Italia, il cui numero è difficile da determinare con precisione. Lo stesso Ministro degli Affari Interni, che ai tempi della campagna elettorale aveva dichiarato la cifra di 500 mila, recentemente l’ha ridimensionata a 90 mila .

Le stime sembrano confermare la prima versione (DATI ISMU, 2018), ma anche in questo caso mancano le basi fondate per parlare di “sostituzione etnica” o, ancora, di “islamizzazione dell’Europa”, tanto più che i credenti stranieri più presenti in Italia sono i cristiani ortodossi (oltre 1,6 milioni; DATI ISMU, 2017).
Riteniamo che questi numeri aumenteranno, ma a causa dei nuovi arrivi via mare, che si sono ridotti quasi al nulla, bensì proprio a causa del Decreto sicurezza.

Prima del “Decreto sicurezza”: tre forme di protezione

Il provvedimento abolisce uno dei tre livelli di protezione previsto in Italia, ovvero il permesso di soggiorno per motivi umanitari, e introduce una serie di permessi molto specifici.
Prima che il decreto-legge entrasse in vigore, il sistema italiano offriva tre livelli di protezione:

  • Status di rifugiato, attribuito, sulla base della Convenzione di Ginevra del 1951, ai richiedenti asilo che riescono a dimostrare di correre il rischio di persecuzione nel loro Paese di origine “per ragioni di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche” (art. 1 della Convenzione). A queste ragioni, due direttive europee hanno aggiunto le persecuzioni per motivi legati al genere e all’orientamento sessuale.
  • Protezione sussidiaria, istituita dall’Unione Europea e presente in tutti i paesi europei. (Direttiva europea 83/2004/CE all’art.2(e) recepita dall’ordinamento italiano con il D.lgs. 19 novembre 2007 n. 251, di attuazione della Direttiva). Questa forma di protezione si assegna a quelle persone che non possono essere considerate rifugiate, ma che, rientrando nel loro Paese, andrebbero incontro a un “rischio effettivo di subire un danno grave”.
    Parliamo, per esempio, di una possibile condanna a morte, di tortura o della minaccia grave causata da un conflitto in corso.
  • Permesso di soggiorno per motivi umanitari, meglio noto come ‘protezione umanitaria’, introdotto nell’ordinamento italiano 1998 e mantenuto fino a ottobre 2018. Questa forma di protezione è presente in molti Paesi europei in diverse forme e con nomi diversi. In Italia, la protezione umanitaria è stata riconosciuta per ragioni diverse, che potevano includere problemi di salute o condizioni di grave povertà nel Paese (o regione) d’origine di un richiedente asilo (FONTE: Ministero dell’interno – Commissione nazionale per il diritto di asilo Circolare prot. 00003716 del 30.7.2015). La durata massima del permesso di soggiorno per motivi umanitari era di due anni.

L’attuale governo italiano ha deciso di abolire la protezione umanitaria, ritenuta troppo discrezionale, nonostante fosse pensata dal legislatore per proteggere persone per le quali ricorressero “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” (articolo 5 comma 6 del TU 286/98).

Dopo il “Decreto sicurezza”: quali sono le nuove forme “speciali” di protezione

In sostituzione del permesso di soggiorno per motivi umanitari sono state introdotte nuove tipologie di permesso ed è stata modificata la dicitura di altri permessi già previsti dalla precedente normativa, alcuni dei quali sono denominati ora “casi speciali”.

  • Permesso per motivi di protezione sociale, rilasciato alle vittime di violenza, sfruttamento e tratta di esseri umani. Questa forma di permesso, già prevista nel Testo Unico sull’Immigrazione, ha durata di sei mesi e può essere rinnovato per un anno o per il tempo necessario affinché la giustizia faccia il suo corso. Dà al titolare la possibilità di lavorare ed è convertibile in permesso per lavoro e studio.
  • Permesso per vittime di violenza domestica, già previsto nel Testo Unico sull’Immigrazione; ha durata pari a un anno, dà la possibilità di lavorare ed è convertibile in permesso di lavoro e studio.
  • Permesso rilasciato per sfruttamento lavorativo. Già previsto dal nostro ordinamento, è rilasciato allo straniero che sporge denuncia contro il suo datore di lavoro e collabora nel corso del procedimento penale. Ha validità 6 mesi, è rinnovabile per un periodo pari a tutta la durata del procedimento, consente di svolgere attività lavorativa e si può convertire in permesso per lavoro.
  • Permesso per calamità naturale, novità introdotta dal decreto; è concesso in occasione di disastri naturali che non permettono di rientrare nel proprio Paese in condizioni di sicurezza. Fra i disastri non sono menzionati i cambiamenti climatici, come la desertificazione o le inondazioni, che privano della fonte di sussistenza le persone legate, per esempio, ad agricoltura o allevamento. Dura sei mesi, rinnovabili nel caso la calamità persista, dà la possibilità di lavorare, ma non è convertibile in permesso per lavoro.
  • Permesso per cure mediche. Si tratta di un permesso introdotto dal decreto-legge in questione, che oggi coesiste con un altro permesso, oggi ancora in vigore, denominato allo stesso modo, ma con caratteristiche diverse. È concesso a quegli stranieri, le cui condizioni di salute potrebbero essere compromesse in maniera rilevante in caso di rientro nel Paese di origine. La durata del permesso è determinata dalla certificazione sanitaria e non può essere superiore a un anno, rinnovabile finché persistono le condizioni di salute di particolare gravità.
  • Permesso per atti di valore civile. Viene rilasciato agli stranieri che hanno compiuto atti di particolare valore civile, esponendo la propria vita a un chiaro rischio. Dura 2 anni, può essere rinnovato e convertito in permesso di lavoro.

    Che effetto sta avendo la scomparsa del permesso umanitario?

I nuovi permessi risulteranno applicabili soltanto a una minoranza molto ristretta di persone alle quali in precedenza era concesso il permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Secondo le stime dell’ISPI, quasi 70.000 persone sono a rischio di diventare ‘irregolari’ in Italia entro la fine del 2020 a causa dell’abolizione della protezione umanitaria.

Tutte queste persone usciranno improvvisamente dai percorsi di accoglienza, rischiando così di diventare all’improvviso un problema di ordine pubblico. Aumenteranno, infatti, gli insediamenti informali nei quali queste persone cercheranno un riparo.

Abbiamo parlato della geografia sommersa dell’esclusione, fatta di baraccopoli improvvisate e periferie dimenticate nel nostro progetto editoriale “Dove l’erba trema”.

Nonostante la casistica sia apparentemente ampia, nella pratica i nuovi “casi speciali” lasciano spazio a zone grigie e distorsioni, che rendono ancora più lenta e complessa la macchina amministrativo-burocratica del nostro Paese.

Abbiamo già avuto modo di sperimentarne alcune. È accaduto nel caso di un cittadino marocchino titolare di una delle nuove tipologie di permesso di soggiorno previste dal decreto sicurezza: il permesso di soggiorno per cure mediche, che dà diritto all’iscrizione obbligatoria al Sistema sanitario nazionale. Il problema è sorto perché a questo permesso di soggiorno è stata data la stessa denominazione di un altro titolo di soggiorno (ex art.36 d.lgs. 286/98) che non permette invece l’iscrizione obbligatoria al Sistema sanitario nazionale. Poco male, si potrebbe pensare, perché è sufficiente specificare l’articolo di legge di riferimento e distinguere così i due permessi di soggiorno. Ma ciò non sempre accade e non è avvenuto nel caso della persona in questione, che abbiamo incontrato in uno dei nostri ambulatori. Il suo documento, rilasciato dalla Questura, riportava infatti solo la generica dicitura “cure mediche”, senza precisare che si trattava del nuovo titolo di soggiorno introdotto dal decreto, e l’anagrafe sanitaria si è rifiutata di procedere all’iscrizione al Sistema sanitario nazionale. A farne le spese, una persona che non sa se potrà eseguire le cure mediche di cui necessita e per le quali è autorizzato a restare in Italia. Di chi è la responsabilità? Non sta a noi stabilirlo. È certo, invece, che il diritto all’assistenza sanitaria va tutelato e non liquidato per una questione burocratica di cui il singolo non è responsabile.

Gli effetti del “Decreto sicurezza” sul sistema di accoglienza

La nuova legge modifica sensibilmente l’intero mondo d’accoglienza, restringendo fortemente la rete del sistema SPRAR (Sistema per l’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati) gestito da enti locali e caratterizzato da piccoli numeri e da un’accoglienza diffusa.
Alla rete SPRAR avevano accesso i richiedenti asilo e i titolari di protezione internazionale (status di rifugiato o protezione sussidiaria) e i titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari. In base alla nuova normativa potrà beneficiarne solo chi ha già ottenuto la protezione internazionale o il permesso di soggiorno “speciale”, oltre ai minori stranieri non accompagnati. Dal sistema vengono quindi esclusi i richiedenti asilo che ancora aspettano il risultato della domanda.
Per questi ultimi l’unica opzione sarà la permanenza nei centri governativi denominati CAS, acronimo di “centro di accoglienza straordinaria”.

La connotazione “straordinaria” oggi significa due cose:

  • Si tratta di un approccio che affronta e gestisce i flussi migratori, in particolare quelli via mare, come qualcosa di “straordinario” e non come un fenomeno non solo “normale”, ma anche perfettamente prevedibile, dal momento che l’entrata in vigore della legge Bossi-Fini nel 2002 ha ridotto drasticamente le possibilità per la manodopera straniera di entrare in Italia legalmente.
  • La reazione all’”emergenza” ha favorito l’allocazione rapida dei richiedenti asilo in strutture di ogni tipo, utilizzando anche lo strumento dell’affidamento diretto della gestione delle strutture di accoglienza. Questo ha lasciato campo libero all’iniziativa di soggetti che hanno approfittato della disponibilità di fondi per improvvisare strutture d’accoglienza sovraffollate, spesso cadenti e in condizioni igienico-sanitarie precarie, dove i richiedenti asilo vengono alloggiati senza una prospettiva concreta. In questi luoghi spesso stazionano per anni, nell’attesa che la domanda sia esaminata, senza avere possibilità alcuna di impiegare il proprio tempo in occupazioni più costruttive, come imparare un mestiere che possa tornare utile al migrante stesso, ma anche alla società che lo accoglie.

Esemplari sono stati gli scandali del Centro di Mineo, in Sicilia, che è diventato il simbolo della mala gestione dell’accoglienza.
Il decreto sicurezza, però, non interviene su questo tipo di accoglienza, ma sia sugli esempi virtuosi di accoglienza straordinaria sia sulla rete SPRAR (Sistema Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati), studiati non solo per accogliere gli stranieri, ma anche per integrarli nel territorio circostante e nel mondo del lavoro.

Gli SPRAR

Cosa facevano gli SPRAR?
I centri SPRAR erano gestiti direttamente dagli enti locali, con il supporto della comunità e degli enti del terzo settore, e con un sistema di controllo delle spese molto capillare e in questo ben diverso da quello che caratterizza i centri di prima accoglienza, dei quali abbiamo già parlato.
Il modello della rete SPRAR può essere considerato un’eccellenza italiana, che ha dato ottimi risultati in termini di inclusione e solidarietà.
Nel suo nuovo assetto, la rete SPRAR, ribattezzata SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e minori stranieri non accompagnati), come abbiamo visto, non è più accessibile ai richiedenti asilo, che ora vengono dirottati tutti verso i centri d’accoglienza straordinaria (CAS). È chiaro l’intento di ridimensionare un modello di accoglienza efficace e inclusivo per lasciare uno spazio ancora più ampio alle strutture di accoglienza straordinaria – sul modello del già citato Mineo, le cui ben note disfunzioni saranno paradossalmente accentuate dalla nuova normativa. Le misure introdotte, infatti, prevedono un taglio dei fondi e dei servizi all’interno dei centri d’accoglienza che inciderà negativamente su tutti i livelli di accoglienza e contribuirà ad abbassare lo standard qualitativo dei grandi centri già oggi sovraffollati e spersonalizzanti. In particolare, desta preoccupazione il fatto che nei grandi centri non sarà previsto l’insegnamento dell’italiano, veicolo determinante per l’inserimento in società e strumento fondamentale per l’accesso a servizi essenziali, come quelli sanitari.
Accanto ai CAS, nelle politiche governative in materia di immigrazione hanno un ruolo centrale i Centri di Detenzione e Rimpatrio, dove sono indirizzati i cittadini stranieri in attesa di espulsione. Questi ultimi rappresentano uno dei capisaldi del programma di governo, che ha annunciato lo spostamento dei fondi destinati all’accoglienza e ai servizi garantiti per assicurare il meccanismo dei rimpatri.

Il paradosso

L’abolizione della protezione umanitaria e la riduzione della rete di accoglienza lasceranno un gran numero di persone nelle nostre strade, con conseguenze reali prevedibili sulla sicurezza reale e percepita delle persone comuni. Qualcuno pensa che sia il passo necessario per poter procedere ai rimpatri.
Non è così per almeno due ragioni. La prima è una questione economica: gli accompagnamenti forzati nel Paese di origine possono arrivare a costare anche ottomila euro per persona in spese per il viaggio e il personale impiegato; basti pensare che per ogni rimpatriato sono previsti almeno due agenti di sicurezza. (FONTE: Internazionale, 2019)
La seconda è una ragione di accordi internazionali: l’Italia ha pochi accordi di riammissione con i paesi dell’Africa centrale. Peraltro, anche i rimpatri verso Paesi con i quali l’Italia ha siglato accordi, come la Libia e la Tunisia, stanno procedendo a rilento, dopo che i due partner nordafricani hanno imposto un limite alle frenesie da espulsione del governo italiano.
Il risultato, a oggi, a dispetto della promessa elettorale dei ”500mila rimpatri” e nonostante l’annuncio dello spostamento di 42 milioni dall’accoglienza agli accompagnamenti alla frontiera, nel 2018 i rimpatri completati dall’Italia sono stati circa 5mila, un numero inferiore ai 6.514 registrati nel 2017.
E nel primo mese dell’anno i rimpatri sono stati 221, oltre 270 in meno dello stesso mese del 2018. Con questi ritmi saranno necessari 90 anni per rimpatriare tutti i migranti irregolari, a condizione che in questo arco di tempo non si registrino più arrivi irregolari (Fonte ISPI, 2018).
Il decreto sicurezza si concentra sugli stranieri, ma non solo.
Sul filo rosso della manovra normativa è l’individuazione sempre più esplicita delle categorie di nemici della società, che si estende a “clandestini”, tossicodipendenti, irregolari, posteggiatori abusivi, venditori ambulanti di fiori e fazzoletti, giocolieri, vagabondi ecc, tutti da colpire nei diritti, fino alla privazione della cittadinanza.

Disposizioni in materia di blocco stradale

Un aspetto preoccupante riguarda le “Disposizioni in materia di blocco stradale”. Nella relazione del Ministero si legge che “La norma si rende necessaria al fine di fronteggiare i sempre più frequenti episodi di blocco stradale, posti in essere anche nella forma di assembramento”
Le nuove misure sono molto più rigide: se dal 1999 in avanti infatti chi “ostruisce” le strade o “le ingombra” è stato punito con una multa, ora per lo stesso reato si rischia da uno a sei anni di carcere, o addirittura da due a dodici anni se il blocco è causato da più persone.
Di fronte a questa norma, i motivi di preoccupazione sono legati alla severità delle pene e al potenziale cattivo utilizzo del termine “assembramento”, che potrebbe essere impiegato anche in caso di manifestazioni e cortei.
In altre parole, sarebbe uno strumento per mettere a tacere eventuali proteste.

I più colpiti dall’introduzione della norma sono ancora i migranti che, in caso di condanna per blocco stradale, possono non solo perdere il diritto ad avere il permesso di soggiorno per restare in Italia, ma anche vedersi revocato il permesso già ottenuto.
Più in generale, però, le nuove disposizioni potranno avere l’effetto di limitare le libertà civili di tutti i cittadini italiani, in particolare di quelli che per una ragione o per un’altra si sentono “dimenticati” dalla politica e vogliono far sentire la propria voce manifestando pubblicamente. Gran parte degli scioperi oggi sono organizzati dai lavoratori del settore agricolo e logistico, entrambi interessati da problematiche di sottosalario e sfruttamento.

Il Daspo urbano

Le disposizioni in merito al DASPO urbano seguono la politica già iniziata dal precedente governo.
Nel suo Decreto Sicurezza, il ministro Minniti introduceva, con il DASPO urbano, una misura che permetteva a sindaci e prefetti di multare e impedire l’accesso ad alcune aree della città alle persone che avessero assunto “condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione.”
Questo ha dato il via libera a una serie di iniziative che hanno lasciato in strada in pieno inverno persone senza fissa dimora che dormivano nelle stazioni o hanno allontanato ambulanti dagli spazi pubblici. In breve, nel nome del decoro i sindaci più intransigenti hanno fatto largo uso della norma per allontanare dai luoghi-vetrina delle loro città i soggetti indesiderati, che erano identificati e bersagliati dal decreto con una precisione scientifica e un chiaro intento discriminatorio: gli ubriachi, i venditori ambulanti, i parcheggiatori abusivi.
Il ministro Salvini ha introdotto uno speciale DASPO sanitario, valido negli ospedali, prendendo a pretesto un fatto molto grave, ovvero l’aumento del numero delle aggressioni a danno del personale medico che opera negli ospedali, soprattutto nelle ore notturne. Secondo un’indagine del sindacato medico Anaao Assomed, condotta su 1280 partecipanti, il 65 percento dei medici ha riferito di aggressioni verbali e il 34 percento di aggressioni fisiche (FONTE: AGI, 2018).
La necessità di provvedere alla sicurezza del personale medico è quindi reale, mentre appare più fumoso il legame fra le aggressioni e le categorie colpite dal DASPO urbano – i già menzionati ubriachi, parcheggiatori, commercianti abusivi e cultori della parolaccia – dal momento che molte (il 95% secondo Il Sole 24 Ore) aggressioni sono compiute da cittadini senza particolari disagi o disturbi.
Con queste caratteristiche il DASPO dagli ospedali può rappresentare una grave discriminazione nell’accesso alle cure mediche, che dovrebbero essere garantite a tutti gli individui dalla nostra Costituzione, ma purtroppo sono spesso negate nella pratica quotidiana, come abbiamo avuto modo di riscontrare in tredici anni di impegno sul territorio italiano.

Conclusioni

Come operatori impegnati a portare assistenza socio-sanitaria alle fasce più vulnerabili sul territorio nazionale, sappiamo che a pagare il prezzo più alto della nuova legislazione saranno proprio le persone più povere o quelle che già vivono in una condizione di disagio e avrebbero maggiormente bisogno del supporto del sistema sanitario nazionale.
Questa legge non ha più come obiettivo di sanzionare i “fatti”, i “reati”, ma le “persone”, nello specifico alcune categorie specifiche “disegnate ad hoc sul prototipo del ribelle (come il blocco stradale o l’occupazione di edifici nella variante politica) o del marginale (come l’accattonaggio molesto o la pratica dell’attività di posteggiatore senza autorizzazione)” (FONTE: ASGI, 2018).
Questo ci riporta a una società rigidamente divisa per classi e attraversata da barriere insuperabili definite dal censo, dal patrimonio.
Oggi il valore della Carta costituzionale è continuamente sminuito, per non dire fatto a pezzi, dalla volontà politica di condurre un vero e proprio attacco ai più deboli nel nome della sicurezza degli Italiani.
Si sta creando una società divisa in due: sappiamo bene che quella distanza di sicurezza è una protezione fragile e illusoria, soprattutto in un Paese come l’Italia, dove l’accesso ai servizi e ad alcuni diritti fondamentali – come quello a essere curati – è strettamente legato alla residenza anagrafica, che, a sua volta, dipende dal contratto di lavoro. In un contesto di crisi occupazionale, come quello che stiamo vivendo, perdere il lavoro, tanto per gli stranieri quanto per gli italiani, può voler dire perdere la casa e l’indirizzo di residenza. Questo si traduce a sua volta nell’impossibilità di veder riconosciuti i propri diritti ed equivale a “sparire” di fronte alla società, indipendentemente dall’origine della persona e del suo passaporto. Non a caso, nel numero totale dei pazienti senza fissa dimora che incontriamo nei nostri ambulatori, i cittadini italiani sono la terza nazionalità al pari con i nigeriani (8%; Romania, 14%; Marocco, 15%).
Di fronte a tutto questo è forte il timore per le conseguenze di una politica divisiva che allargherà le distanze fra i cittadini ammessi in società e quelli, sempre più numerosi, che invece ne restano fuori. Le leggi che vogliono separare, filtrare, isolare, sono sempre un sintomo preoccupante. Sono il segnale d’allarme che i diritti della persona sono relegati in secondo piano rispetto a una politica che non esita a mettersi al di sopra della legge.