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“Ecco le mie cicatrici”, i racconti delle persone soccorse sulla Open Arms

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La scorsa notte, sulla Open Arms sono salite a bordo 44 persone. Sono state soccorse dallo staff presente sulla nave mentre si trovavano stipati su una piccola barca di legno ormai distrutta e con il motore in avaria, in balìa del buio e delle acque del Mediterraneo.

Il nostro mediatore culturale Bader, che ha supportato lo staff nell’attività di ricerca e soccorso, ci racconta alcune delle storie che ha ascoltato e il vissuto di queste persone prima di essere tratte in salvo. Tra i 44 migranti soccorsi, ci sono anche 16 minori e A. è uno di loro:

Mi chiamo A., ho 16 anni e vengo da Mogadiscio, in Somalia. Prima di arrivare in Libia, ho fatto un viaggio di 7 mesi attraversando Etiopia, Sudan e il deserto. Sono arrivato a Kufra, lì mi hanno catturato e portato in prigione. Ci sono rimasto un anno. Un inferno. Mi hanno chiesto dei soldi per liberarmi, ma io non ne avevo. Allora mi torturavano: calci, pugni, hanno usato anche un coltello per colpirmi, ecco le mie cicatrici. Quando ho provato a fuggire per la prima volta da quel posto, sono stato preso di nuovo e portato nel centro di detenzione di Trik al Sikka dopo un bombardamento aereo.

Ora sono felice, perché finalmente sono salvo. Ringrazio Dio per essere ancora vivo, e lontano dalla Libia.

Un altro uomo soccorso sulla Open Arms racconta a Bader che nel 2017 le milizie libiche lo hanno condotto nel carcere di Zuara. Quando ha provato a scappare, una nave della guardia costiera libica lo ha preso e riportato indietro, impedendogli di fuggire.

Una delle due donne soccorse si chiama Salem, viene dall’Eritrea e ha 20 anni. Non era sola durante il viaggio, ma insieme al bambino che porta in grembo.

“Quando ho incontrato Salem – ci racconta il nostro mediatore Bader – era molto preoccupata. Solo durante l’ecografia che lo staff a bordo della nave le ha fatto, Salem ha recuperato il sorriso perché ha visto che il bimbo che aspettava non era in pericolo e stava bene. Guardava in video il suo piccolo e le si illuminavano gli occhi.”

“Mio marito non è potuto partire con me — ha raccontato dopo Salem. Sulla spiaggia dove ci siamo imbarcati c’erano troppe persone e lui non ce l’ha fatta a salire.”

Insieme a un passato di violenze e soprusi, a bordo della Open Arms le persone hanno portato con loro ricordi e speranze. Un ragazzo eritreo, per esempio, ha steso in fila le foto di tutti i suoi familiari, le uniche cose che è riuscito a portare con sé.

Questa mattina, le autorità maltesi hanno disposto il trasbordo di tutte le persone, consentendo loro di raggiungere la terraferma. Mentre gli Stati cercavano di stabilire la responsabilità di quelle vite e quale sarebbe stato il loro porto sicuro, i racconti e le testimonianze drammatiche che si sono susseguite nelle scorse ore lasciano almeno un margine di speranza per quello che sarà il loro futuro.

“Buona fortuna” dice Bader in tigrino, in arabo e poi anche in somalo dalla nave, salutando le persone soccorse mentre venivano trasferite su un pattugliatore diretto verso l’isola che li accoglierà.

Noi, con loro, speriamo in una vita fatta di dignità e diritti, lontano dalla sofferenza e dalle discriminazioni che hanno negato loro il rispetto per la vita umana.