Audizione Commissioni Esteri e Difesa – L’intervento di EMERGENCY
Alla c.a. dei Presidenti Tremonti e Minardo
III Commissione Esteri
IV Commissione Difesa
Camera dei Deputati
Roma, 7 giugno 2023
Gentile Presidente, Onorevoli membri delle Commissioni Esteri e Difesa della Camera,
vi ringraziamo innanzitutto per l’invito ad essere auditi in merito alla partecipazione dell’Italia a ulteriori missioni internazionali per l’anno 2023, nonché alla proroga delle missioni internazionali e degli interventi di cooperazione allo sviluppo già avviati nel 2022.
Dalla sua nascita EMERGENCY è impegnata in teatri di guerra e in contesti di crisi per offrire cure salvavita a tutti coloro che ne abbiano bisogno e possibilità di lavoro e formazione a chi intende specializzarsi in ambito sanitario. Allo stesso tempo, promuoviamo una cultura di pace, solidarietà e rispetto dei diritti umani. Attività, queste, presupposto e complemento l’una dell’altra, perché – come ci ricorda la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo – è attraverso la pratica dei diritti fondamentali, tra cui il diritto ad essere curati, che si garantisce l’inalienabile uguaglianza e dignità di ogni membro della famiglia umana, fondamento della libertà, giustizia e pace nel mondo.
Da quasi 30 anni siamo testimoni delle conseguenze della guerra e della violenza sulle persone che curiamo tutti i giorni nei nostri ospedali e delle distorsioni che le missioni militari internazionali hanno troppo spesso causato nei contesti di intervento, a scapito di politiche di aiuto che promuovano lo sviluppo e società resilienti in un’ottica di lungo periodo.
Nel 2022 e 2023 la spesa per le missioni militari italiane all’estero si è attestata sulla cifra record di 1,4 miliardi di euro, mentre AOI – la Rete delle ONG italiane di cui EMERGENCY è parte – calcola che i fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo e all’aiuto umanitario siano diminuiti del 12% rispetto allo scorso anno e ammontino a 358 milioni di euro per il 2023. Eppure le crisi non sono affatto diminuite. Anzi, secondo ACAPS – un progetto di natura non-governativa che conduce analisi indipendenti e specializzate dei contesti umanitari – sono oltre 40 i Paesi colpiti da crisi con un indice di severità molto alto o alto1, le cosiddette crisi complesse.
EMERGENCY conosce bene molte di queste realtà. A ottobre 2021, le Commissioni riunite Affari Esteri e Difesa del Senato ci invitarono a parlare della “Partecipazione italiana all’intervento internazionale in Afghanistan”. Accadeva a pochi mesi di distanza dalla presa di potere da parte dei talebani. A oggi non conosciamo le valutazioni politiche successive a quel dibattito, né abbiamo avuto notizia di un bilancio complessivo della più costosa missione militare italiana all’estero – per un totale di 8,7 miliardi di euro in costi per la guerra – nonché la più lunga nella nostra storia repubblicana. Continueremo però a sottolineare il resoconto drammatico delle conseguenze che questi 20 anni di guerra hanno avuto per gli afgani e che vediamo replicarsi in altri scenari con crescente preoccupazione.
Proprio a titolo di esempio, vogliamo condividere con Voi alcuni dei risultati di un rapporto che abbiamo recentemente pubblicato sull’accesso alle cure in Afghanistan dopo l’agosto 2021. Il rapporto mette in luce come, nonostante la guerra – causa per eccellenza di crisi umanitarie– sia formalmente finita, le condizioni di vita per gli afgani non siano affatto migliorate. A essere gravemente peggiorate sono le loro condizioni socio- economiche, a cui si accompagnano le carenze croniche e strutturali del sistema pubblico, rendendo l’accesso alle cure essenziali un percorso a ostacoli.
L’86% degli afgani intervistati nell’ambito dello studio si è visto costretto a prendere denaro in prestito per curarsi e il 70% a posticipare le cure. Le spese non riguardano solo i farmaci o le visite, ma anche i trasporti per arrivare alle strutture sanitarie. Più di 1 partecipante su 5 ha dichiarato di aver perso un parente o un amico che non ha avuto accesso alle cure di cui aveva bisogno. La vita degli afgani non è quindi più in pericolo – o almeno non quanto prima – a causa degli ordigni esplosivi o del fuoco incrociato, ma perché non hanno abbastanza reddito da mettere un pasto in tavola per le proprie famiglie.
Tralasciando i trilioni di dollari spesi per la guerra, risulta incomprensibile come ciò possa accadere dopo un investimento annuale in aiuti allo sviluppo per l’Afghanistan di 4,3 miliardi di dollari dal 2002 al 20202. Com’è possibile che gli ospedali afgani non possano disporre di risorse sufficienti? Che non possano contare su personale adeguato e qualificato, né sulle necessarie forniture di farmaci o di attrezzature biomedicali? Con gli occhi lucidi, il direttore di un ospedale pubblico provinciale ha condiviso con noi la sua angoscia perché non gli era possibile avere il riscaldamento nella corsia pediatrica del suo ospedale, nonostante le rigide temperature dell’inverno afgano. Spesso mancano anche luce e acqua corrente. E queste non sono novità degli ultimi due anni.
Le criticità croniche del sistema sanitario pubblico, così come di altri servizi essenziali, trovano infatti ragione nel fallimento dell’approccio occidentale in Afghanistan. Aver concentrato risorse ingenti su 20 anni di intervento militare piuttosto che su politiche di sviluppo e di institution building ha fatto sì che il Paese non si emancipasse dagli aiuti internazionali, che assicuravano la copertura del 75% della spesa pubblica e costituivano il 40% del PIL3, e non costruisse un sistema efficace di protezione dei diritti fondamentali. In aggiunta, le sanzioni internazionali e il congelamento di 9 miliardi di dollari in riserve afgane all’estero – decisi dopo il cambio di governo dell’agosto 2021 – hanno dato il colpo di grazia ad un già fragile tessuto sociale ed economico, provato da decenni di conflitto.
EMERGENCY continua a essere presente nel Paese con 3 centri chirurgici, 1 centro pediatrico e 1 centro di maternità, quest’ultimo interamente gestito da personale femminile. Collegati a questi ospedali, gestiamo più di 40 centri di salute e posti di primo soccorso nelle zone rurali del Paese.
In 24 anni di lavoro in Afghanistan, EMERGENCY ha curato oltre 8 milioni e mezzo di afgani e afgane, con un investimento di oltre 160 milioni di euro. Rappresentiamo un presidio di pratica dei diritti per i pazienti, ma anche per gli oltre 1700 membri dello staff locale e in particolar modo per le donne, che ancora una volta pagano il prezzo più caro nell’oblio e nel disinteresse dell’Occidente.
Alla luce di una situazione drammatica sul terreno, le Nazioni Unite hanno lanciato l’appello al finanziamento della risposta umanitaria più alta di sempre: 4.6 miliardi di dollari. Ci preme sottolineare che, nonostante i bisogni crescenti, sono stati assicurati ad oggi solo il 9% dei fondi richiesti4, mentre l’Italia sta valutando che per il prossimo triennio l’Afghanistan non rientri più fra i Paesi prioritari per la cooperazione internazionale.
A questo proposito, chiediamo che l’Italia non riduca gli aiuti all’Afghanistan, ma che, al contrario, si faccia promotrice di un approccio pragmatico e costruttivo per il futuro del Paese affinché non siano gli afgani e le afgane a pagare le conseguenze degli sviluppi politico-militari che non hanno scelto.
Gli interventi di cooperazione internazionale non possono essere considerati meramente ancillari rispetto alle missioni militari. I processi di sviluppo e, più in generale, di costruzione di società coese e pacifiche non dovrebbero avere inizio quando conflitti e violenza hanno già preso il sopravvento. Da anni ormai sentiamo parlare del nesso emergenza-sviluppo-pace. Gli addetti ai lavori si sono domandati quale sia la risposta più efficace alle crisi protratte e multidimensionali che ci troviamo ad affrontare con sempre maggiore frequenza. L’esito della riflessione è la constatazione che non si possa risolvere una crisi complessa intervenendo militarmente e destinando risorse irrisorie per garantire aiuti umanitari e servizi minimi. L’assistenza umanitaria deve rappresentare il primo e fondamentale passo di una risposta integrata che guarda a soluzioni di lungo periodo che nulla hanno a che vedere con la militarizzazione degli aiuti. Gli aiuti umanitari alleviano i danni già inflitti, non li prevengono. La guerra e il paradigma della sicurezza non curano affatto, uccidono le persone e la possibilità di futuro.
Abbiamo visto questo approccio securitario farsi sempre più strada nella politica estera italiana ed europea, nel nome della difesa dei confini e dell’identità nazionale. Gli importanti impegni economici previsti dal decreto missioni confermano questa scelta. Ci siamo progressivamente allontanati dai valori fondanti la nostra Costituzione e dai più basilari principi di convivenza pacifica sul pianeta per lasciare spazio a un nuovo e pericoloso lessico che include termini quali “esternalizzazione delle frontiere” e “contenimento”, non per parlare di virus o malattie ma di esseri umani che cercano condizioni di vita migliori.
Nel provvedimento oggi in esame leggiamo di diverse missioni a supporto delle autorità libiche, in linea con il Memorandum Italia-Libia del 2017 che, ogni anno, viene indirettamente confermato dal voto parlamentare del decreto missioni. Con uno stanziamento di 104 milioni di euro, il dispositivo aeronavale nazionale nel Mar Mediterraneo “Mare Sicuro” è la missione italiana in Africa più costosa. In questa collaborazione si inserisce il supporto alla cosiddetta guardia costiera libica. Per il 2023 si aggiunge addirittura una nuova scheda (scheda 16-bis/2023), per offrire attività di consulenza, formazione e tutoraggio alle strutture statali per la gestione integrata delle frontiere in Libia.
Si tratta di un’ulteriore supplemento agli impegni già assunti dall’Italia in Libia, che contrasta con i risultati della recente Missione Indipendente della Nazioni Unite. La Missione ha infatti rilevato che sono stati commessi “crimini contro l’umanità contro i migranti in luoghi di detenzione sotto il controllo effettivo o nominale della Direzione libica per la lotta alla migrazione illegale, della Guardia costiera libica e dell’Apparato di sostegno alla stabilità. Queste entità hanno ricevuto supporto tecnico, logistico e monetario dall’Unione Europea e dai suoi Stati membri per, tra l’altro, l’intercettazione e il rimpatrio dei migranti”5.
L’Europa e l’Italia continuano quindi a rendersi complici di questi aberranti crimini e invece di raccogliere l’invito – ormai datato – del Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres di «riesaminare le politiche a sostegno dell’intercettazione in mare e del ritorno di rifugiati e migranti in Libia», aumentano fondi e risorse a sostegno del traffico di esseri umani, che, ribadiamo, si può smantellare solo garantendo vie di accesso legali e sicure all’Europa.
A bordo della nostra nave, la Life Support, operativa da dicembre 2022, abbiamo avuto esperienza diretta delle conseguenze di queste politiche in mare. In 8 missioni abbiamo soccorso 683 persone. Diversi fra loro ci hanno raccontato degli abusi e delle violenze subiti in Libia; alcuni faticavano a reggersi in piedi; molti avevano sintomi di disidratazione, gli occhi non più abituati alla luce per i tanti mesi rinchiusi in stanze buie o il corpo bruciato dal sale e dal carburante; alcune donne erano incinta, anche al settimo mese di gravidanza. Siamo stati anche testimoni di operazioni di intercettazione e respingimento operate da navi mercantili sotto il coordinamento delle autorità. In due occasioni, dopo aver confermato alle autorità la nostra disponibilità a effettuare il soccorso e avviato le operazioni di ricerca, abbiamo avuto notizia – indirettamente – della presa in carico dei casi di distress da parte di navi commerciali che, in palese contravvenzione al diritto internazionale, hanno riportato i naufraghi in Libia. Il secondo caso desta particolare preoccupazione. Il natante si trovava infatti in zona SAR maltese, a debita distanza dalle coste libiche; ospitava a bordo 485 persone e una donna aveva partorito la notte prima che raggiungessimo le ultime coordinate note dell’imbarcazione in pericolo, invano.
Ribadiamo che la Libia non può essere in alcun modo considerata un place of safety per lo sbarco dei naufraghi a seguito di operazioni di ricerca e soccorso. Riaffermiamo che le operazioni che terminano con uno sbarco in Libia non possono essere considerate di ricerca e soccorso, bensì di intercettazione e respingimento, in violazione del principio di non-refoulement. Chiediamo pertanto di abbandonare immediatamente ogni forma di collaborazione nel Mediterraneo Centrale che abbia tale finalità.
Chiediamo inoltre al Parlamento e al Governo di revocare il Memorandum Italia-Libia e di non prorogare né tantomeno espandere le missioni militari internazionali che supportano l’attività della cosiddetta guardia costiera libica, che ci rendono complici di crimini contro l’umanità6 e di gravi violazioni di diritti umani. Siamo convinti che, per offrire una vera ricostruzione alla popolazione libica, sia necessario destinare fondi a progetti di assistenza umanitaria e di cooperazione allo sviluppo, che abbiano come presupposto e finalità il rispetto dei diritti umani e vedano il diretto coinvolgimento delle comunità e della società civile libica, invece che alla gestione delle frontiere da parte di autorità con legami criminosi per conto dell’Europa.
Chiediamo infine che i fondi siano destinati alla creazione di una missione navale di soccorso europea con chiaro compito di ricerca e salvataggio delle persone in mare e che le attività umanitarie salvavita delle ONG del mare possano essere riconosciute come parte integrante degli sforzi congiunti a tutela della vita e possano svolgersi senza impedimenti nelle acque internazionali del Mediterraneo Centrale.
La dimensione esterna è ormai il principale focus della politica migratoria europea che si era finora concentrata su Libia7 e Turchia8. Già da tempo, però l’Italia e l’Europa supportano altri Paesi africani nel controllo della migrazione. Attraverso il Fondo Fiduciario per l’Africa, infatti, i Paesi che hanno ottenuto la quota di fondi più elevata sono stati il Sudan, la Somalia e la Libia. Il Fondo Fiduciario aveva come scopo dichiarato contribuire alla stabilizzazione del continente africano e affrontare le cause della migrazione irregolare, del problema degli sfollati e del controllo dei confini9. Tuttavia, secondo le stime realizzate dalle organizzazioni Cini e Concord, emerge che quasi la metà di tutti i finanziamenti sarebbero stati spesi per prevenire i flussi migratori verso l’Europa10. L’uso del condizionale è d’obbligo vista l’opacità con cui questi fondi sono stati gestiti e rendicontati ad oggi. Il nuovo fondo NDICI si muove lungo la stessa direzione e continuerà a supportare l’azione esterna dell’Unione con un budget di €79,5 miliardi per il periodo 2021-2027.
I risultati dell’esternalizzazione delle frontiere si sono già rivelati fallimentari. La Libia e la Turchia non sono Paesi più sicuri dal punto di vista del rispetto dei diritti umani e raggiungere l’Europa è diventato più pericoloso. Il rafforzamento e l’allargamento della dimensione esterna – così come previsto dal nuovo Piano di Azione per il Mediterraneo Centrale della Commissione Europea – in riferimento alla prevenzione delle partenze irregolari e al rafforzamento delle capacità di ricerca e soccorso di Tunisia, Egitto e Libia non pongono le basi per proteggere le persone che fuggono da trattamenti inumani e degradanti, abusi, detenzioni arbitrarie e altre violazioni. Già raccogliamo i nuovi e allarmanti frutti dell’ampliamento di questo approccio alla Tunisia, che nel 2023 è diventata il primo Paese in termini di arrivi via mare in Italia.
In questa preoccupante direzione vanno anche il nuovo intervento previsto dal decreto in oggetto in Burkina Faso, che si aggiunge alla conferma e all’ampliamento delle già numerose missioni nei Paesi del Nord Africa, del Sahel e del Corno d’Africa. Spostiamo sempre più a sud i confini della Fortezza Europa, ma non i valori e i principi che sono alla base delle nostre democrazie.
Un altro recentissimo esempio è il Sudan, che dal 15 aprile 2023 è teatro di un sanguinoso conflitto, ma che da oltre un decennio è caratterizzato da una disastrosa crisi economica, una grave insicurezza alimentare e una profonda instabilità politica, deterioratasi ulteriormente a seguito della destituzione e dell’arresto del Presidente al- Bashir nel 2019. Paese fino ad oggi prioritario per la cooperazione italiana – in particolare per la sanità e l’agricoltura, ma anche per le politiche di esternalizzazione delle frontiere – ora il Sudan allarma l’Italia non tanto per le drammatiche condizioni in cui versano milioni di sudanesi, ma per il possibile nuovo afflusso di richiedenti asilo sulle nostre coste.
In Sudan, Paese da cui vi parlo, EMERGENCY continua a operare con personale locale e internazionale, anche in assenza di rappresentanze diplomatiche. Per la prima volta, la capitale Khartoum è direttamente coinvolta negli scontri armati, anzi ne è il fulcro principale. Proprio quella Khartoum che lo scorso febbraio aveva ospitato la riunione dell’African Network of Medical Excellence, un’iniziativa promossa da EMERGENCY che ha riunito le delegazioni di 15 Paesi africani per disegnare insieme il percorso verso la realizzazione del diritto alle cure nel continente. A pagare le conseguenze della guerra, anche in questo caso, sono i civili: ospedali occupati da militari, strutture civili attaccate, abitazioni saccheggiate, milioni di persone in fuga o intrappolate sotto le bombe, morti, feriti. Lo scoppio di questo ennesimo conflitto ha messo a dura prova tutto quello che in questo Paese abbiamo costruito nei passati 20 anni. Nonostante le difficili condizioni di sicurezza, stiamo riuscendo a tenere aperte tutte le strutture a Port Sudan, Nyala e Khartoum. Tutte, tranne il centro pediatrico di Mayo situato in una delle aree maggiormente coinvolta nel conflitto armato.
Come per l’Afghanistan, da anni la risposta umanitaria per il Sudan è sotto-finanziata, con un picco in negativo nel 2021, quando solo il 37% dei fondi richiesti sono stati raccolti11. Chiediamo pertanto che, anche e soprattutto in questo momento di conflitto, venga data la priorità a programmi che concilino emergenza e sviluppo per rafforzare l’erogazione di servizi essenziali e di percorsi di formazione, e stimolino le economie locali con l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita delle comunità sul medio e lungo termine.
Chiediamo inoltre di destinare più risorse per rispettare l’impegno internazionale ed europeo di destinare lo 0,70% del PIL nazionale a sostegno di obiettivi di sviluppo, obiettivi che non devono essere condizionati da accordi per il contenimento delle migrazioni e il controllo delle frontiere. Come altri Paesi donatori, l’Italia ha incluso i fondi dedicati all’accoglienza dei richiedenti asilo nei propri territori come parte integrante degli aiuti allo sviluppo. Aumentando le risorse dedicate all’accoglienza, gli aiuti pubblici allo sviluppo sono fittiziamente passati dallo 0,29% del 2021 allo 0,32% del 202212, attestandosi, nonostante questo, ben al di sotto dell’impegno dello 0,70%.
La cosiddetta donor fatigue, che male fa i conti con l’aumento di crisi sempre più complesse e violente, è un sintomo di un approccio inefficace e miope alla politica estera. Il supporto alla risposta alle crisi è altalenante e troppo spesso subordinato al perseguimento di altri interessi politici. Esistono crisi di serie A e crisi di serie B, così come esistono migranti di serie A e migranti di serie B.
Negli ultimi due anni in Etiopia si è consumato uno fra più efferati conflitti armati recenti, che ha provocato la morte di almeno 600 mila persone. A marzo un team di EMERGENCY è stato fra i primi e pochissimi a poter entrare nella regione del Tigray per condurre una missione di screening cardiologico e una seconda missione si è conclusa la scorsa settimana per valutare la portata dei bisogni e un nostro possibile intervento.
Tuttavia, a fronte di un cospicuo aumento della richiesta di fondi umanitari, l’Etiopia ha risentito di una proporzionale riduzione dei fondi allocati, sempre più insufficienti a rispondere ai bisogni della popolazione, tra le più povere al mondo. Nel 2022, infatti, solo metà dell’obiettivo di raccolta fondi è stato raggiunto, per un totale di circa 1,7 miliardi di dollari sui 3,3 richiesti13. Inoltre, nonostante sia un Paese tradizionalmente prioritario e con un legame storico con l’Italia, non sono mai stati attivati canali sicuri e legali per l’evacuazione e la pronta protezione delle vittime della guerra.
Con lo scoppio della guerra in Ucraina, i conflitti più lontani – in senso letterale e figurato – sono passati ancor più in secondo piano. Secondo i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), l’indirizzamento di importanti risorse verso la risposta umanitaria in Ucraina – un Paese che, nonostante la guerra, ha sicuramente risorse maggiori dei Paesi africani – ha contribuito alla diminuzione degli aiuti complessivi all’Africa, con un calo globale del 7% nel 202214.
Per il sostegno all’Ucraina e alle operazioni in chiave di deterrenza anti-russa, questo decreto missioni stanzia ben 314 milioni di euro per il 2023, cifra che non considera però l’export di armamenti che, secondo stime di inizio anno, aveva contribuito a fare salire il costo complessivo dell’aiuto militare italiano a quasi 1 miliardo di euro. Per l’assistenza umanitaria sono stati stanziati a livello globale quasi 4 miliardi di dollari, finora solo 1 miliardo in aiuti è stato erogato. Anche in questo caso dunque, abbiamo potuto constatare come, nell’uso delle risorse la priorità sia andata a supporto dell’intervento militare, piuttosto che ai bisogni della popolazione. In particolare, abbiamo potuto testimoniare direttamente in due recenti missioni di valutazione nel Paese quanto i bisogni di salute più urgenti siano ancora disattesi, con la sanità di base in cima alla lista delle necessità, soprattutto nell’Oblast del Donetsk, fra le zone più colpite dal conflitto.
Per garantire la doverosa protezione agli sfollati di guerra, l’Europa ha attivato per la prima volta la direttiva per la protezione temporanea. Grazie a questo meccanismo gli Stati membri hanno accolto e assicurato immediata protezione a oltre 5 milioni di persone in fuga dall’Ucraina. In Italia, hanno ottenuto la protezione temporanea o una protezione simile più di 175 mila persone, arrivate nel nostro Paese in pochi mesi. Il Governo ha creato percorsi di accoglienza in tempi da record, adottando soluzioni innovative che sembravano impensabili fino a qualche settimana prima. Si è affermata una solidarietà diffusa che ha visto protagoniste le organizzazioni della società civile, le famiglie e le comunità locali.
Dall’inizio dell’anno, 51 mila persone si sono imbarcate in pericolosi viaggi per attraversare il Mediterraneo per scappare da conflitti, persecuzioni e povertà e sono arrivate nel nostro Paese. A questi si deve aggiungere una stima approssimativa di 9.000 arrivi attraverso il confine del Friuli-Venezia Giulia nel primo quadrimestre del 2023.
Anche a loro vanno ugualmente garantiti un’accoglienza dignitosa e percorsi di inclusione che soddisfino i diritti fondamentali.
La risposta che l’Europea e l’Italia hanno dato alla guerra in Ucraina ci ha dimostrato che è possibile non solo accogliere, ma anche farlo bene quando vengono attivati strumenti efficaci e stanziati fondi adeguati. L’Italia può e deve scegliere di essere solidale non solo nel nostro Paese, o verso chi sentiamo più vicino, ma anche nei Paesi di origine e di transito che ci sembrano più distanti.
Da 29 anni EMERGENCY è impegnata nella lotta alle diseguaglianze. La medicina ci insegna che i luoghi di cura devono essere universali, accoglienti e accessibili a tutti senza discriminazione per garantire il diritto delle persone a veder riconosciuta la propria dignità soprattutto nei momenti di difficoltà e sofferenza. Chiediamo che questo principio si faccia spazio nel dibattito pubblico e che diventi il cuore di politiche lungimiranti e costruttive in Italia e all’estero, in attuazione dei valori costituzionali che siamo tutti chiamati a rappresentare nel rispetto dei ruoli e responsabilità di ciascuno.
1 ACAPS, Crisis in Sight, https://www.acaps.org/countries, accesso effettuato il 05/06/2023.
2 ACAPS, Afghanistan Analysis Hub, “Afghanistan: Forward looking snapshot of the Afghan economy”, 2023.
3 World Bank, “Towards Economic Stabilization and Recovery”, Afghanistan Development Update, aprile 2022.
4 UN OCHA, https://www.unocha.org/afghanistan, accesso effettuato il 06/06/2023.
5 Human Rights Council, Report of the Independent Fact-Finding Mission on Libya, 27 February–31 March 2023.
6 Come definiti dall’Alto Commissariato per i Diritti Umani della Nazioni Unite.
7 Solo nell’ambito dell’Emergency Trust Fund for Africa, la Libia ha ricevuto €459 milioni come supporto nella gestione delle migrazioni.
8 La Commissione Europea ha approvato un pacchetto di 4 anni che ammonta a €5.7 miliardi, con oltre €3.5 miliardi dedicati ai rifugiati presenti in Turchia, e €2.2 miliardi per i beneficiari in Siria, Libano, Giordania e Iraq.
9 The Big Wall, https://www.thebigwall.org/
10 Qui maggiori informazioni sul Fondo: https://www.openpolis.it/a-cosa-sono-serviti-i-soldi-delleutf/
11 UN OCHA, https://fts.unocha.org/appeals/1123/summary?_gl=1*1mz4ssz*_ga*MTYwMTQxNjU0OS4xNjc3MTQzOTIz*_ga_E60ZNX2F68*MTY4NjA0Nzg0MS44LjAuMTY4NjA0Nzg0MS42MC4wLjA, accesso effettuato il 06/06/2023 .
12 Ibidem.
13 UN OCHA, Humanitarian Needs Overview Ethiopia, 2023.
14 Info Cooperazione, La crisi Ucraina fa aumentare l’aiuto globale che resta sempre più nei paesi donatori, https://www.info-cooperazione.it/2023/04/la-crisi-ucraina-fa-aumentare-laiuto-globale-che-resta-sempre-piu-nei-paesidonatori/, 12 Aprile 2023.